Yasunari, impossibile finire…
di Antonio Stanca –
A Ottobre dell’anno scorso è comparsa, per conto della Mondadori, la prima edizione Oscar Moderni Cult del romanzo Denti di leone, ultimo dello scrittore giapponese Kawabata Yasunari. La traduzione è di Antonietta Pastore.
Yasunari era nato ad Osaka nel 1899 ed era morto a Tokio nel 1972. Al 1972 risale Denti di leone, opera rimasta incompiuta, uscita a puntate sulla rivista letteraria “Shincho” e infine in volume allegato a questa e curato dal genero dello scrittore.
Settantatré anni era vissuto Yasunari, nel 1968, quando ne aveva sessantanove, gli era stato conferito il Premio Nobel per la Letteratura, nel 1972, quando morì, si parlò di suicidio ma non tutti ne furono convinti anche se chiari erano stati i segni che negli ultimi tempi dello scrittore avevano fatto pensare ad una simile eventualità. Non è vissuto molto ma molto ha fatto, molto ha scritto, in molti sensi si è mosso. Già durante gli anni universitari aveva cominciato a scrivere racconti, nei quali si nota la tendenza, allora diffusa in Giappone, a combinare le tradizioni letterarie nazionali con gli esiti delle avanguardie europee. Erano gli anni ’20 e Yasunari, insieme ad altri autori giapponesi, avrebbe preso parte ad iniziative di carattere non solo culturale ma anche civile, sociale, avrebbe fondato il movimento letterario del “Neopercezionismo”, che voleva opere ispirate all’immediatezza delle sensazioni. Una tendenza nuova che avrebbe segnato la prima produzione dello Yasunari. Di questa fecero parte soprattutto racconti caratterizzati da un’esposizione breve, rapida. Altri ne scrisse in seguito fino a raggiungere un numero superiore a cento. Nel 1930 La banda di Asakusa fu il primo romanzo e nel 1948 venne il suo capolavoro, Il paese delle nevi. Molto altro ancora avrebbe scritto tra romanzi, racconti, sceneggiature, saggi ed epistolari. Di trentacinque volumi si sarebbe composta l’intera sua produzione e nel 2003 la Mondadori avrebbe dedicato a Yasunari un volume de “I Meridiani”.
Le sue opere uscivano generalmente a puntate su riviste e venivano ritoccate dall’autore quasi in continuazione prima dell’edizione definitiva. Yasunari risentiva di diverse influenze, di diverse mode letterarie, dalle più antiche alle più moderne, dalle nazionali alle straniere. Per molti tipi di contenuto e di forma espressiva c’era posto nelle sue narrazioni che spesso stentavano ad ottenere una definizione ultima. Yasunari giunse a considerare il “non finito”, il “non compiuto” come una regola, una maniera per la sua scrittura, a pensare all’opera come ad un fenomeno in continua evoluzione, mai concluso poiché esteso oltre ogni limite. Giunse, per questa via, a sperimentare la tecnica del “flusso di coscienza”, a risalire, tramite una sensazione, un’immagine, indietro nel tempo, rivivere il passato, coglierlo nella sua interezza. A riscoprire, ritrovare esempi di bellezza, soprattutto femminile, ad attribuire loro un valore, una funzione superiore, arriverà lo Yasunari della maturità, compreso quello di Denti di leone. Qui la bellissima e giovanissima Ineko è stata lasciata dalla madre e dal fidanzato Hisano in una clinica psichiatrica perché sia curata di quei problemi mentali che le procurano una parziale cecità in determinate circostanze. La clinica si trova presso il piccolo paese di Ikuta, accanto al fiume omonimo e ad un antico tempio buddista. La campana di questo viene suonata cinque volte al giorno e ogni volta da un diverso malato della clinica perché così credono i medici di contribuire al miglioramento delle sue condizioni di salute. Segnale di queste sarà il tipo di suono ogni volta prodotto.
La madre e il fidanzato di Ineko tornano, quindi, in paese a piedi lungo il sentiero che costeggia il fiume, dopo aver accompagnato la ragazza alla clinica. Il paesaggio intorno è solitario, deserto quasi riflettesse il loro stato d’animo piuttosto turbato, inquieto: sono circondati da boschi dalla fitta vegetazione, ridotta è la luce durante l’ora del crepuscolo, difficile, sconnesso è il sentiero, sovrastata è ogni tanto la situazione dai rintocchi della campana del tempio che mai fanno pensare a miglioramenti per i malati.
Di genere triste, amaro sarà pure il discorso che si avvierà tra i due viandanti, durerà per tutta l’opera, si estenderà a tanti argomenti, a volte si ripeterà, non si fermerà mai, mai si ridurrà a pochi elementi e quando sembrerà che stia per farlo ritornerà sul già detto, già pensato, già discusso. Vagherà quel dialogo tra il passato e il presente della vita di Ineko e degli interlocutori, tra il rapporto della ragazza col padre e quello con la madre, tra eventuali, precedenti manifestazioni dei suoi problemi psichici e attuali condizioni, tra fiducia nella nuova clinica, nei nuovi medici e rassegnazione ad un destino inevitabile. Lui, il giovane, non crede molto nelle cure che le potranno essere praticate mentre la madre è più fiduciosa, lui pensa che la guarigione potrebbe avvenire naturalmente se la ragazza, fuori dalla clinica, vivesse la sua vita, magari si sposasse, la madre non accetta una simile proposta, lui non sopporta che una ragazza così giovane, così bella stia chiusa insieme a vecchie dementi, è convinto che quando la bellezza è tanta porti da sola a star bene. La madre vede quello del ricovero come un periodo limitato e utile per la guarigione di Ineko. Insieme a questi si dirà di altri argomenti, ce ne saranno per un libro intero e neanche finiranno. Si dirà di malattie del corpo e della mente, di realtà e idea, religione e fede, vita e morte, amore e odio, bene e male e di tanto altro.
Uno solo era sembrato, all’inizio, il motivo di quel discorso ma poiché di carattere interiore, morale, spirituale sempre ci sarebbe stato da dire per loro e da scrivere per Yasunari. Impossibile sarebbe stato finire come, appunto, lo scrittore si era ormai convinto.
Antonio Stanca
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