VECCHI MODELLI E NUOVE TENDENZE
di Pietro Maiorca –
Vero è che nell’esaltazione cui talvolta ci si abbandona quando si rievocano i cosiddetti “bei tempi andati”, altro non si nasconde se non la nostalgia per la giovinezza perduta. Ma è anche vero che non sempre si riesce a stare al passo coi tempi, per cui si resta in qualche misura ancorati alle vecchie consuetudini. Le quali consuetudini, pur divenute obsolete, continuano a suggerire determinate scelte comportamentali. Situazioni di questo tipo ricorrono frequentemente ad ogni salto generazionale e sono tanto più diffuse quanto più rapido e traumatico è il passaggio da un sistema di vita ad un altro.
Ciò succede perché ogni comportamento dipende non tanto dall’apporto di idee nuove quanto dalla conoscenza di idee vecchie, per cui l’adattamento a una situazione nuova richiede necessariamente il ricorso ai criteri di giudizio già sperimentati in precedenza. È per questo motivo che le vecchie abitudini non scompaiono del tutto, anzi, si ripresentano sempre con maggiore prepotenza tutte le volte che si debbono affrontare profondi cambiamenti.
È quanto si verifica, ad esempio, nell’età avanzata, epoca in cui l’ostinato e talvolta morboso attaccamento al passato esprime il disagio che consegue non solo alla perdita della forza fisica, ma anche alla diminuzione del ruolo sociale, alla difficoltà di riconoscersi nelle nuove generazioni, al sovvertimento di un sistema di vita già consolidato.
Certo, il disagio esistenziale della terza età è sempre esistito. La vecchiaia, tuttavia, era sicuramente meno frustrante quando i padri potevano assicurare, attraverso i figli, la continuità tra presente e futuro: quando, cioè, i genitori potevano trasmettere non solo la loro identità genetica, ma anche la loro identità culturale. Ciò era particolarmente evidente in campo lavorativo, quando tutte le imprese erano per lo più a conduzione familiare, per cui i padri, giunti all’età avanzata, potevano affidare ai figli la continuazione del loro lavoro, sicuri di aver creato qualcosa che sarebbe loro sopravvissuto.
In epoche preindustriali, infatti, prevale quel tipo di società che l’antropologa americana Margaret Mead definisce “post-figurativa” in cui i bambini apprendono soprattutto dagli adulti perché i mutamenti sono così lenti e impercettibili che passato, presente e futuro si identificano. In questa situazione gli adulti (specialmente gli anziani) svolgono un ruolo importantissimo; essi sono i depositari del sapere; assicurano la sopravvivenza del gruppo perché mettono a disposizione la loro esperienza in caso di calamità o di pericolo; forniscono un modello di comportamento per i più giovani; danno, insomma, un esempio di cosa sia la vita. In questo tipo di società, i nonni non possono immaginare per i loro nipoti nessun altro futuro possibile che non sia identico al proprio passato.
Il tipo di società attuale, invece, non è facilmente definibile in termini assoluti. Non è, come si è visto, una società “post-figurativa”; non è neppure, tanto per usare la stessa classificazione della Mead, una società “co-figurativa” in cui sia i giovani che gli adulti apprendono dai loro pari, né una società “pre-figurativa” in cui i grandi apprendono dai piccoli. Nella società attuale, in parte si apprende dagli adulti, in parte dai coetanei, in parte dai più giovani, ma soprattutto si apprende da fonti impersonali o meccaniche (scuola, libri, computer, televisione, ecc.).
Per la velocità con cui si succedono i cambiamenti, oggi il futuro è inconoscibile. I padri si vedono preclusa la possibilità di perpetuare, tramite i figli, tutto il lavoro di una vita perché questo viene spesso superato o vanificato dall’impiego di nuove soluzioni. Gli anziani non sono più in grado di assicurare la continuità tra presente e futuro per cui, venendo a mancare questo passaggio di consegne, viene loro a mancare anche la funzione che li rendeva indispensabili: quella di produrre e trasmettere cultura. Gli stessi vivono in un mondo che è loro estraneo, completamente diverso da quello in cui si sono formati; faticano ad accettare le nuove acquisizioni; si trovano nella situazione di chi deve imparare una nuova lingua, ma si sa bene che questo è molto più facile da piccoli mentre, da grandi, una nuova lingua risulta essere sempre un qualcosa di artificiale e di appiccicaticcio.
Succede così che quando ad una certa età giungono cambiamenti cui difficilmente ci si può adattare, si reagisce con comportamenti che sono da interpretare come meccanismi di difesa: il rifugio nelle vecchie abitudini è, per l’appunto, uno di questi.
Non è un caso che tali atteggiamenti riguardino soprattutto gli anziani, essendo i giovani, in genere, quelli più inclini a fare l’esatto contrario, cioè a tentare di modificare la società in cui vivono.
Da giovani, infatti, si è padroni del tempo; si affrontano con spavalderia i rischi di nuove scelte; per ogni abitudine che si lascia, se ne adotta subito un’altra senza tanti rimpianti; ci si mette sempre in gioco; si è sempre pronti a ricominciare da capo; e quand’anche si dovesse perdere qualcosa, non si perderebbe mai sé stessi perché è nel futuro che ci si situa ed è nel futuro che si proietta l’appagamento di tutti i desideri e di tutte le aspirazioni.
Da vecchi, invece, il tempo è una trappola senza via di scampo; dal futuro non ci si può aspettare niente di buono; non si sa mai se il domani sarà la ripetizione dell’oggi; ogni cambiamento è visto con inquietudine, se non con orrore; ogni novità è accolta con diffidenza; ecco allora che ci si radica sempre di più nelle abitudini, le quali danno sicurezza, risparmiano scelte rischiose, forniscono risposte prima ancora di dover porre le domande. Nelle abitudini gli anziani condensano il passato, il presente e il futuro e ne fanno un mezzo atto a garantire quell’eternità che altrimenti sarebbe loro negata; grazie alle abitudini gli anziani sanno di esistere, e separarsene è come separarsi da sé stessi.
“Quando si diventa vecchi” – scrive lo scrittore Gustave Flaubert (1821-1880) alla nipotina – “le abitudini sono di una tirannia di cui non hai nemmeno l’idea, mia povera bimba. Tutto ciò che se ne va, tutto ciò che ci lascia, ha il carattere dell’irrevocabile, e sentiamo marciare su di noi la morte”.
Il filosofo Michèle de Montaigne (1533-1592) aggiunge: “Trista e violenta maestra è l’abitudine! A poco a poco, quasi di nascosto, stabilisce in noi la sua autorità; si insinua in noi umile e dolce, e poi col tempo ci si pianta dentro scoprendo un volto tirannico, sul quale non osiamo nemmeno levare gli occhi”.
L’influsso del passato sul presente, però, non si esaurisce con le semplici abitudini, essendo un fenomeno molto complesso che affonda le sue radici in una dimensione della natura umana che è ancora tutta da esplorare.
La psicologia e soprattutto la psichiatria hanno contribuito non poco alla comprensione di tale fenomeno. Secondo il viennese Sigmund Freud (1856-1939), alla base di ogni comportamento ci sono tre ordini di fattori: le norme e i condizionamenti che l’individuo ha assorbito dal proprio ambiente familiare e sociale (il Super Io), le componenti psichiche che non possono essere accettate coscientemente (impulsi sessuali repressi, ricordi infantili traumatizzanti, desideri e bisogni elementari rimossi, cioè l’ inconscio propriamente detto) e, infine, le componenti che rientrano sotto il dominio della coscienza, grazie alle quali l’individuo si mette in rapporto col mondo circostante e stabilisce l’universo dei suoi valori personali (l’Io o Ego).
Tutte queste istanze non cessano mai di ripercuotersi, per tutta la vita, sulla condotta di ciascun individuo. Abitudini, stili di vita, atteggiamenti di qualsiasi genere sono, perciò, il prodotto di quanto l’individuo ha immagazzinato nella sua storia personale e, a seconda della minore o maggiore intensità con cui mostra di dipendere dal passato – nella gamma infinita di combinazioni possibili – , questi scivolerà verso la personalità del “rivoluzionario” (per il quale il futuro non arriva mai troppo presto) oppure verso quella del “conservatore” (per il quale il passato non è mai veramente passato).
Modellare la propria condotta su esperienze già vissute (sia pure inconsce) fa parte, dunque, del modo di essere di ciascun individuo e rappresenta, altresì, la strategia cui si ricorre più frequentemente tutte le volte che si debbono affrontare prove molto rischiose. Tutte queste abitudini, però, restano pur sempre confinate nell’ambito delle manifestazioni individuali.
Mentre è un fatto che la memoria del passato si presenta anche sotto un altro aspetto, molto più complesso del precedente e molto più resistente ad ogni tentativo di accesso conoscitivo: non un semplice cammino a ritroso che riporti all’infanzia o al grembo materno, bensì un ritorno a quei tempi primordiali in cui cominciarono a definirsi i caratteri di tutta l’umanità.
Non è azzardato pensare che in tutti noi sia rimasto qualcosa di questo lontano passato che ci attrae, ci accomuna e ci condiziona secondo modalità di cui, però, è impossibile parlare se non per congetture.
Solo in questo senso, ma in maniera illuminante, ne parlò lo svizzero Carl Gustave Jung (1875-1961) quando formulò la teoria secondo la quale la sfera dell’inconscio va molto al di là di quella strettamente individuale. Questi ipotizzò l’esistenza di un inconscio collettivo inteso come una sorta di substrato superindividuale che racchiude le immagini delle più antiche esperienze fatte dall’umanità (nascita, maternità, morte, senso del pericolo, ecc.) le quali assumono il valore di archetipi, cioè di modelli che, assieme a quelli di pertinenza individuale, sovrintendono a tanti modi del comportamento e del pensiero dell’uomo. L’inconscio collettivo sarebbe, insomma, la memoria stessa della specie: ciò che resta della saggezza diffusa in natura, preposta a uniformare tutto ciò che esiste e che tende, nondimeno, a regolare e a dirigere le azioni del singolo individuo, in un’economia che pone le esigenze individuali al servizio di quelle comuni.
Questa eredità arcaica, di cui l’uomo è materiato, non si limita a conferire continuità all’esperienza psichica, ma, espandendola dalla sfera individuale a quella collettiva, crea una rete di collegamenti che si configura come l’essenza comunicativa su cui poggia l’intera struttura sociale.
Ecco allora che l’attaccamento al passato non è soltanto la nostalgia per la giovinezza perduta, ma è anche l’attrazione che esercita lo spirito primitivo del nostro agire, che non cessa mai di porre dei principi regolatori alla vita in comune, di stabilire un ordine nelle azioni umane.
Il bisogno di ordine è un bisogno primario dell’uomo perché grazie ad esso viene assicurata la convivenza e la pace sociale. Non importa se quest’ordine risponde a un criterio oppure a un altro, ciò che importa è che l’ordine ci sia, perché tale è l’esigenza dello spirito umano. È da questa esigenza che nasce l’organizzazione del mondo civile, cioè del mondo “fatto” dagli uomini, che è quello delle leggi e delle istituzioni.
Ma, se le leggi e le istituzioni esistono (ed esistono per un atto della volontà), ciò succede perché è l’esigenza di ordine (che invece è spontanea e involontaria) che crea la regolarità delle azioni da cui le leggi e le istituzioni derivano. Ci sono, infatti, uniformità di comportamenti sociali che si creano spontaneamente: esse possono anche tradursi in leggi, ma la reale efficacia di queste sarà sempre subordinata a quelle uniformità cui le leggi non fanno altro che dare un’espressione scritta.
Il diritto, in altre parole, nasce e si alimenta proprio dalle consuetudini, le quali rivelano certe regolarità di azioni che sono rispettate spontaneamente, anche in assenza di leggi specifiche. Gran parte del diritto, infatti, vige non tanto perché la regolarità di certi comportamenti è voluta e imposta dallo Stato, quanto perché gli stessi comportamenti sono propriamente delle consuetudini. Gli istituti del matrimonio e della famiglia, ad esempio, esistono e si tramandano non per volontà dello Stato, ma perché fanno parte del costume sociale e anche se non ci fossero le leggi a stabilirne le regole, di fatto (se non di diritto) i suddetti istituti esisterebbero lo stesso.
I giuristi romani erano ben consapevoli dell’importanza degli usi, dei costumi, delle consuetudini (cioè dei “mores”) e li consideravano – per il fatto di essere uniformi, cioè condivisi e sentiti da tutti – alla stregua delle leggi, anche se non rispondevano ai requisiti di obbligatorietà come le leggi vere e proprie e anche se erano indipendenti da formule normative.
Un mondo senza legge è inimmaginabile. Una legge “deve” esistere e, se non proprio una legge nel vero senso della parola (cioè che sia scritta, che provenga da un’autorità e che abbia carattere obbligatorio), ciò che deve esserci sempre e comunque è l’ordine, la regolarità di un certo tipo di azioni.
I costumi soddisfano questo bisogno di ordine. Essi non sono ancora legge, ma non stanno neppure al di fuori della legge, giacché ne racchiudono i principi informativi. Non si creda, tuttavia, che l’origine dei costumi derivi dalla forza dell’abitudine, della ripetizione e dell’imitazione: queste non sono altro che descrizioni del modo in cui l’evento si manifesta, che è quello, appunto, delle azioni abituali, ripetute e imitate. Il costume, in realtà, nasce dall’attività creatrice del nostro spirito che si oggettivizza e si riconosce nell’uniformità delle azioni.
La “legge” dei costumi è, in definitiva, la legge dei “mores”: la legge morale che non ha ancora trovato un’espressione giuridica e che, in questa mancata differenziazione, scopre la sua limitatezza, ma, al contempo, anche la sua superiorità.
Gli usi e i costumi delle più antiche società rappresentano i modelli originari cui noi tutti, uomini moderni e raffinati, restiamo tuttora debitori. Anche dalle società più arcaiche, infatti, si possono trarre preziosi insegnamenti, specialmente quando antepongono l’utile collettivo al profitto personale o fanno dell’aiuto reciproco una fondamentale regola di vita o si dimostrano capaci di stabilire l’ordine sociale con minor fatica e maggior efficacia di qualsiasi forza di polizia. Simili società non solo non possono dirsi antiquate o superate, ma dovrebbero assumersi come unità di misura per tutto quello che l’uomo potrebbe o dovrebbe essere, e invece non è.
Ma, si sa, le consuetudini cambiano, così come cambiano i criteri di giudizio e i modi di rapportarsi con le cose. Cambia, dunque, anche la morale: attualmente la sua tendenza è quella di essere sempre meno pubblica e sempre più personale, in ossequio alla nuova dimensione in cui l’uomo si vede catapultato dalle enormi trasformazioni che stanno investendo tutta la società.
Pensare di far rivivere il mondo di una volta e, insieme ad esso, la vecchia morale che vi ha regnato incontrastata, è cosa sciocca e vana. Né è ammissibile che il passato venga rievocato solo per alimentare il culto delle cose antiche o per inseguire mitiche identità perdute. È più opportuno, invece, che la rievocazione del passato debba essere utilizzata per risalire a quei principi che possono ancora guidare i nostri modi comportamentali.
La grossa incognita, adesso, sta nella rifondazione della morale che il cosiddetto “progresso” sta attuando non più sul terreno della tradizione, bensì su quello dell’interesse individuale: partono da qui le innumerevoli crociate che si intraprendono giornalmente in difesa del singolo individuo di cui non ci si stanca di rivendicare i diritti, soddisfare i desideri, esaltare la personalità, incoraggiare l’indipendenza intellettuale.
Secondo questa logica si avrebbe non solo il diritto, ma anche il dovere di mettere in crisi ogni tipo di sapere che sia semplicemente tramandato, smontandolo e ricostruendolo in una lotta continua contro tutto ciò che è preconcetto; si avrebbe il diritto e il dovere di respingere opinioni e convinzioni che possano formarsi sotto la spinta di suggestioni o di pressioni emotive, di ampliare i confini delle proprie esperienze, di interagire con forme culturali diverse, di acquisire un’autonomia di giudizio – e, dunque, un’autonomia morale – che possa condurre alla formazione di un sistema di vita completamente personalizzato.
Se tutto questo va ad onore della dignità dell’uomo in quanto essere dotato di ragione, allo stesso tempo legittima la demolizione di ogni norma tradizionale. Ciò spiega la facilità con cui oggi ci si sottrae così spesso all’obbligo delle convenzioni sociali.
Questa sorta di anarchia che sembra caratterizzare i tempi moderni è dunque correlata alla progressiva scomparsa della morale pubblica dal suo naturale contesto sociale. Non esiste più un “sentire” comune che riunisca tutti in un sodalizio operante in un’unica direzione; il gregge umano si sta disperdendo; quelli che, sempre più numerosi, escono dal gruppo per imboccare in solitudine un sentiero sconosciuto, non sono più considerati pecore nere, ma spiriti liberi che hanno fatto la loro scelta e che, proprio per questo, vanno rispettati anziché biasimati. È come se la coscienza collettiva si fosse frantumata in una miriade di coscienze individuali, indipendenti l’una dall’altra, senza più memoria della loro comune origine, senz’altro fine se non quello di riporre la loro ragione di essere nell’affermazione delle loro libertà.
Le continue levate di scudi in difesa dei diritti dell’uomo innalzano sì l’individuo a valore supremo, ma favoriscono anche la nascita di un individualismo che mira principalmente alla pura e semplice affermazione del proprio Io quale valore inalienabile, come se la collettività non esistesse.
L’uomo moderno, insomma, non riconoscendosi più in una struttura che lo pone al servizio di un disegno superiore ovvero in una società fatta a imitazione dell’Ordine dell’Universo, non tollera che questa interferisca con i suoi interessi; egli pertanto si crea un “proprio” diritto ispirato a un’etica che, perseguendo esclusivamente l’utile personale, dimostra di non avere alcuna funzione sociale.
Sul progresso, appena nominato, è opportuno fare qualche precisazione, specialmente a riguardo delle forme con cui si presenta. Il progresso scientifico (delle conoscenze) non offre il fianco a nessuna obiezione; a parte i problemi bioetici che innesca in casi particolari (manipolazioni genetiche, impiego di cellule embrionali, ecc.) è fuor di dubbio che l’ampliamento delle conoscenze rappresenti sempre un fatto positivo. Il progresso tecnologico (per l’applicazione delle conoscenze) è irto di insidie perché, collegandosi al precedente, ne evidenzia la bontà o la dannosità a seconda di come viene impiegato. Il progresso economico (del benessere materiale) ha permesso la diffusione di tante comodità, ma è innegabile che da queste comodità fasce vastissime di persone ne restino escluse. Il progresso sociale (dell’equa distribuzione del reddito) è naturalmente il più auspicabile, ma, come il precedente, non impedisce che accanto a quelli che vivono nell’opulenza (pochi) ce ne siano altri (molti, anzi, troppi) che muoiono di fame.
È opinione comune che il progresso debba essere un obiettivo nobile da raggiungere anche a costo di grandi sacrifici; chi non lo persegue, infatti, il più delle volte viene considerato meritevole di essere ricacciato fra i selvaggi dell’età della pietra. Certo, il progresso non si presenta sempre con valenze positive, ma, per quanti difetti vi si vogliano cogliere, è indubbio che i suoi pregi ne denotano la fondamentale bontà. L’importante è riconoscerne i meriti e i limiti e soprattutto stabilirne un criterio di valutazione. Qui il compito si fa difficile perché, se lo si vuole chiamare progresso, non basta che sia estensibile a tutti anziché essere esclusivo di determinate categorie di persone, ma è necessario che esso sia da ricercare nella sfera dei beni immateriali, di quei beni che fanno dell’uomo quello che è. Perciò il vero progresso, quello che dà dignità all’uomo e lo eleva al di sopra di tutto, è e deve essere progresso morale.
Il fatto, per l’individuo, di rompere con le vecchie tradizioni – e quindi con la vecchia morale – non lo rende più libero né più capace di orientarsi nel mondo. A spingerlo in questa pericolosa direzione intervengono anche nuove tendenze. La “new age”, ad esempio, che propone una nuova consapevolezza e un rinnovato modo di percepire sé stessi e l’universo circostante. Questa “nuova era” – che fino a pochi anni fa si manteneva ai margini della cultura ufficiale e veniva vista come qualcosa di sovversivo e di scandaloso – ha già guadagnato ampi consensi e sta influenzando molti campi dell’umana attività: dall’economia (attraverso un diverso rapporto tra uomo e ambiente e un uso più ecologico dell’energia) alla politica (con un superamento della concezione materialistico-meccanicistica dell’uomo), alla medicina (con una visione olistica della persona e una riscoperta della medicina naturale), alla religione (con la contestazione degli assunti dogmatici e un sempre più diffuso avvicinamento alle filosofie orientali).
Parallelamente, un mal inteso senso di quel che è detto “pluralismo culturale” porta lo stesso individuo ad “aprirsi” a tal punto da non riconoscersi più nella propria cultura e a “perdersi”, così, nel più desolante anonimato. Mentre è nell’affermazione della propria specificità culturale che risiede la sua vera fonte di arricchimento: è quanto è stato proclamato dall’UNESCO, che così recita: “La diversità culturale è necessaria per l’umanità quanto la biodiversità per la natura”, per cui “la difesa della diversità culturale è un imperativo etico, inseparabile dal rispetto per la dignità umana”.
Il fenomeno dell’integrazione delle etnie, infatti, rappresenta la migliore premessa per giungere alla disintegrazione delle culture autoctone nei loro aspetti religiosi, di costume, di lingua, di organizzazione sociale. Questo succede (e purtroppo succede troppo spesso) quando il suddetto pluralismo è visto come un’opportunità di scimmiottamento e non già come un impegno volto alla convivenza pluralistica in cui ognuno si senta chiamato a salvaguardare la propria identità nel rispetto, ben inteso, di quella altrui.
Si assiste, così, in una stessa area geografica, alla sovrapposizione di tratti diversi provenienti da tutte le direzioni, in una babele festaiola in cui le diversità anche più folli sono tutte compatibili. In un vagabondaggio culturale interessato più ai fatti estetici che a quelli etici, ci si cuce addosso un’esistenza fatta di istanti eterni che conviene vivere al meglio, qui e subito; ci si appropria dei più disparati esotismi, ibridando la società con elementi eterogenei e mobili. Trascinati nel vortice di simili sviluppi, si giunge ad una desacralizzazione delle tradizioni che comporta, inevitabilmente, un indebolimento della propria identità.
Un altro fenomeno che entra in gioco nel determinismo di nuove tendenze è quello della globalizzazione, cioè di un processo di crescita progressiva delle relazioni e degli scambi di ogni tipo a livello mondiale: un flusso straordinario di prodotti, di idee e di modelli che arrivano – sempre uguali – in ogni angolo della terra, e ai quali inevitabilmente ci si conforma. Non solo di un processo economico si tratta, bensì di un complesso di dinamiche che investe tutti i settori della vita sociale. Il fenomeno della globalizzazione sta creando una tale omologazione culturale quale non si era mai visto in passato. Con buona pace per l’inglese David H. Lawrence che era sbarcato in Sardegna per sfuggire a “quella odiosa, omogenea identicità mondiale”: se, per assurdo, lo stesso potesse ripercorrere, oggi, tutta l’isola da un capo all’ altro, non c’è dubbio che le sue aspettative andrebbero miseramente deluse.
Anche la rete telematica (Internet) rientra nel fenomeno della globalizzazione, ma, ai fini prettamente sociali, anche questa si rivela un abbaglio: non essendo per nulla utile alla convivenza, essa dimostra di essere soltanto una parodia dei rapporti umani, anzi, più che avvicinare gli uomini, si direbbe che li allontani, spersonalizzandoli e riducendoli a stereotipi asettici e solitari.
Oggigiorno le nuove tecnologie permettono di abbattere ogni barriera di spazio e di tempo, di comunicare in tempo reale con qualsiasi punto del mondo, di svolgere qualsiasi attività senza muoversi dalla propria abitazione; in teoria, chiunque potrebbe vivere la sua vita e soddisfare tutti i suoi bisogni senza dover intrattenere rapporti diretti con chicchessia. Ma, come chi non ha freni inibitori non può dirsi più libero degli altri, così è limitato nella sua libertà chi si ritiene libero dai vincoli sociali. Questo perché – come ammonisce il filosofo Theodor W. Adorno (1903-1969) – “l’individuo non ha in sé alcun contenuto che non abbia anche un significato sociale: tutta la società è nell’individuo, tutto l’individuo nella società”; dentro la società l’individuo è un soggetto che diventa tanto più ricco quanto più nella stessa si identifica, fuori della società si immiserisce, si involgarisce e regredisce allo stato di semplice oggetto senza valore.
Nessuno, al momento, è in grado di prevedere dove condurranno le profonde trasformazioni che si stanno succedendo a ritmo continuo. Ci si guarderà bene dal cadere nell’errore di condannare la modernità senza alcuna riserva, così come ci si asterrà dall’ aderirvi in maniera incondizionata. Tuttavia, se l’uomo vorrà ancora dare un senso alla sua vita, dovrà per forza riappropriarsi di quella morale che, riportandolo ad essere un tutt’uno con l’Ordine dell’Universo, continui ad aiutarlo a convivere coi suoi simili.
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