di Antonio Stanca –

Il 22 Maggio scorso è morto a New York Philip Roth. Era nato nel 1933 a Newark, nel New Jersey. Aveva ottantacinque anni ed era stato lo scrittore ebreo-americano più noto di questi ultimi tempi. Aveva ottenuto molti riconoscimenti anche se a volte erano state criticate certe sue opere perché licenziose nel contenuto ed oscene nel linguaggio. Molti suoi romanzi hanno avuto una trasposizione cinematografica.

Temi ricorrenti nella sua narrativa sono squarci di vita propri degli ambienti dove è nato e cresciuto e dove evidenti sono risultate le difficoltà sofferte dagli immigrati ebrei nei rapporti con gli americani. Altri argomenti che ricorrono nel Roth scrittore sono quelli dei problemi che la figura dell’intellettuale, dell’artista, dell’uomo di genio sono giunti ad avere nei tempi moderni, quando la massificazione di ogni aspetto della vita ha ridotto lo spazio richiesto dall’attività dello spirito. Roth fa vedere spesso come nel giro di poco tempo l’artista abbia perso quella posizione che lo distingueva, che ne faceva un eletto e si sia visto relegato ai margini. Sono argomenti ardui, si è trattato di una trasformazione che non ha riguardato soltanto l’arte ma ogni aspetto della vita che era in contatto con l’anima, ogni elemento della società, della storia che era legato alla morale. Ampio, vasto è stato il fenomeno, quella di un’epoca è stata la sua dimensione e, tuttavia, Roth è stato sempre capace di trattare del problema. Era il problema del tempo, del suo tempo, era il suo problema, era lui ad assistere al grande cambiamento del ventesimo secolo, a patirlo, a soffrirlo, a sentirsi mosso a rappresentarlo in tanti modi, in tante opere, a farlo interpretare da personaggi che diventeranno emblematici, ritorneranno in molte opere, a fare di se stesso un personaggio della sua scrittura. Roth scrive della vita degli altri e della sua, scrive del suo tempo e dei suoi problemi, altro cerca in quel che accade, non si rassegna alla perdita, alla fine di quanto era sempre valso anche se non sa come evitarle. Ricco si mostra sempre il suo linguaggio, abilmente si muove tra i più complicati processi della mente umana. Teorico, però, rimane spesso.

Così succede pure in L’animale morente, romanzo che risale al 2001 e che recentemente è comparso nella lunga serie che il Corriere della Seraha dedicato a Roth in occasione della sua morte. La traduzione è di Vincenzo Mantovani.

Nell’operalo scrittore s’impegna a rappresentare un altro difficile problema, quello del rapporto d’amore vissuto dal sessantaduenne professore di critica letteraria David Kepesh e la ventiquattrenne sua alunna Consuela Castillo, di origine cubana. Si era nell’America degli ultimi anni del secolo scorso, nell’America perbene che, però, tanto nascondeva. Lui aveva divorziato molti anni prima, aveva lasciato la moglie e un figlio e molte altre esperienze amorose aveva avuto in seguito. Sembrava gli fossero necessarie e sembrava pure che sapesse liberarsi con facilità. Procedendo come altre volte aveva cominciato a stare con la Castillo che però, a differenza delle altre donne, era molto giovane e molto bella. Il suo volto, il suo corpo non avevano un difetto, tutto era composto, compiuto in lei, era la bellezza completa, totale, assoluta. La sua bellezza, la sua nudità diventerà l’interesse, il piacere, il bisogno di entrambi. Lui non credeva nemmeno che gli fosse possibile piacere ad una ragazza così bella, che potesse essere voluto, desiderato da lei. Staranno, tuttavia, insieme per più di un anno, il loro sarà amore dell’anima oltre che del corpo, affetto, trasporto oltre che sesso, eros. Nessuno si accorgerà della differenza, della distanza che esiste tra loro, tutto sembrerà procedere nel migliore dei modi, tutti i loro saranno pensieri, discorsi che riguarderanno il loro amore, che lo vorranno rafforzare, renderlo importante, saranno pensieri, discorsi che percorreranno l’intera opera, si combineranno, s’intrecceranno, faranno vedere quanto sicuro sia Roth nel concepire, immaginare, rappresentare i risvolti della mente, le pieghe dell’anima mentre fa trasparire tanta storia, tanta vita di  quella vecchia America della quale ancora poco si sa.

Col tempo, però, sarà il professore a cominciare a pensare in modo diverso da quello di sempre, sarà lui a porsi interrogativi circa il futuro del suo rapporto, di un rapporto tra una ragazza giovane e un uomo maturo, sarà lui a sentirsi esposto ai pericoli di un abbandono da parte di lei, a convincersi che sarebbe andata così, a non cercarla più, a lasciarla. Anche di questo sopraggiunto tormento, travaglio Roth si mostrerà acuto osservatore. Non cesserà mai di seguire gli sviluppi che in particolare nella mente del suo protagonista assumeranno certi problemi.

Niente rimarrà senza detto eppure non un romanzo psicologico può essere definito questo di Roth ma un racconto di vita come tanti altri suoi.

Antonio Stanca