Per strada, il sogno eternoritornante
di Marcello Buttazzo –
Non so perché mai, in una notte insonne, mi sovvengono precisi ricordi. Anno 2008. Avevo 15 anni in meno. Ma la stessa irrequietudine di oggi. L’amore allora latitava (come ora). Non la fiducia e la passione per la vita, questa piccola cosa infinita. Trascorrevo, in quel 2008, una parte della mattinata a passeggiare lungo il Corso di Lecce. Arrivavo da Lequile con la mia Fiat Uno, la parcheggiavo nei pressi delle benzine prima del sottovia. E a piedi m’incamminavo per la città barocca. Percorrevo lunghe distanze. Mi fermavo al bar per un caffè e, talvolta, alla libreria Palmieri. Mi facevo consigliare dalla signora Anna qualche libro di poesie. Quell’anno fu fecondo di pensieri. Il mio errare per il Corso di Lecce vide nascere un libretto di versi dal titolo “Per strada”, pubblicato poi da Calcangeli Editore (cioè dallo scultore Mario Calcagnile), nel 2009. Trascorrevo lo spazio e il tempo con il mio immaginario scolpito nel cuore e con una varia umanità incontrata per la via. Canterebbe Salvatore Toma: “Le lunghe strade con cielo giallo/sciate ogni tanto/da qualche volo d’uccello/anonimo lineare senza canto/con a bordo brandelli di periferia/”. L’amore (allora come ora) latitava. Avevo ancora nella mente lei, la dolce chimera. Pensavo che avrei sparpagliato semi d’amaranto sul suo cuore di piccola messicana. Lei, grano rosso sfuggente, germoglio contadino, sussulto nella notte. Di sangue, la vita, grappolo di pannocchie, virgulto d’amore. Lei, nonostante il distacco, la lontananza, era ancora la mia pianta d’amaranto, anche se apparteneva a terre che più non conoscevo. Avevo una freccia conficcata nel costato insanguinato. Ma andavo su e giù per Lecce con la speranza che mi navigava dentro. Ritenevo che nella fontana di città avrei pescato pietruzze d’oro e cuori di leonesse, che avrei adornato di petali di rose il giaciglio d’un amore in disuso, melanconico e ferito. Il passero dell’oblio svolazzava fra le fronde verdeggianti e di ruggine. Ebbro di sole avrei divorato occhi di fanciulle e il frumento di nuovi amori. Avevo un trasalimento d’amor proprio. È vero, lei un tempo profumava di frumento e di rose. Era cielo di marzo di frastagliato colore. Sapeva di fragole di primavera inoltrata. Ma mi dicevo: ora non è più tempo di anemoni e nubi. Quell’amore ormai era solo rossore svanito, un bimbo che piangeva, un sicomoro di fronda dura. Quelle scorrerie su e giù per Lecce mi fecero incontrare tante anime palpitanti di bellezza. A Porta Rudiae, l’indiano meditabondo al suo banchetto di preziose cianfrusaglie. I giovani artisti s’accendevano l’ultima sigaretta. Ottobre, colore sfocato, s’ammantava di sapori crepuscolari. L’amore stremato strappava raggi di sole al giorno e cantava le nenie all’antica solitudine. Laura, occhi acquarello, madonna solitaria, Caravaggio sulla luna, dipingeva palazzi. All’angolo del Duomo, l’artista barbuto cantava un De André d’amore e di lotta. Laura, leggiadra, inseguiva chimere e l’amore di sempre. San Giovannino e l’ariete d’un dolce novembre. Al banchetto della LAV, vedevo Chiara brillare coi suoi occhi diamante. Chiara raccoglieva firme d’oro con indelebile inchiostro d’amore. Nei suoi capelli ondulati c’era profumo di gelsomini. Le sue cosce erano una sinfonia di violini. Le sue gambe avrei voluto mangiare come pane domenicale. Dei suoi occhi luccicanti avrei voluto fare monili da regalare agli artisti di strada. Sam offriva ai passanti canestri di gioie. Pietruzza azzurrognola lo spazio d’un incontro, d’un saluto. La mattina profumava di timo e barbagliava d’un colore ebano. Sam aveva gli occhi luminosi d’un cielo nostalgico. Un Cristo nero traversava il giorno. I fiori del Senegal lo aspettavano per inedite primavere. Alessia, l’angelo biondo, era confusa alla gente festosa del Corso serale. Esplosione di rare stelle nel cielo. Alito d’estate, l’angelo biondo. Io coglievo bisbigli di luna, spighe di vita, rossi coralli di strada. Elettricità nell’aria, fanciulli, fanciulle, il sogno eternoritornante d’un amore astrale. All’angolo del Duomo, il mio amico mulinava sogni e gialli birilli. Un freddo pungente tagliava le gambe. Lo vidi coperto di stracci, che acciuffava al volo le anime erranti, ne faceva polvere di stelle. A una fanciulla ebbra di sole strappò il cuore, lo fece a pezzi, lo donò ai ragazzi innamorati. Lo vidi, era tornato su selciati probabili, il suo grosso cane nero salutava i passanti. Non so perché in questa notte insonne mi ritornano frammenti d’un passato, allorquando l’amore latitava. Allora, come oggi. Forse, perché tutti abbiamo bisogno d’amore per sentirci ancora vivi, per tenere a bada la morte. Ora, come allora, nonostante tutto, nell’anima s’annidano ancora Vanesse, virenti salici che ridono. Ora, come allora, sento riecheggiare suoni, parole, sibili di vento, feste di piazza. Ora, come allora, l’anima, mosaico d’oro, pozzo di ricorrenti melodie, zufolo di Dio, fischietta stagioni di sogno.
Marcello Buttazzo
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