di Antonio Stanca –

Ristampato da GEDI e allegato a “la Repubblica” e “La Stampa” è stato recentemente Le voci della sera, un romanzo breve di Natalia Ginzburg. Lo scrisse nel 1961 quando era a Londra dove dal 1959 era andata col secondo marito, l’anglista Gabriele Baldini, incaricato di dirigere l’Istituto Italiano di Cultura della capitale inglese. Lo scrisse in poco tempo e per alcuni è da ritenere una delle sue opere migliori.

Natalia era nata Levi a Palermo nel 1916 e morta a Roma nel 1991. Nel 1936, sposatasi con Leone Ginzburg, ne aveva assunto il cognome. Nel 1942 lo aveva seguito, insieme ai figli, in Abruzzo dove era stato confinato per motivi politici e nel 1944 lo aveva perso perché vittima delle sue idee di sinistra e del suo impegno a diffonderle. Si erano conosciuti a Torino dove lui faceva parte del gruppo di intellettuali antifascisti che intorno agli anni ’30 operavano per conto della casa editrice Einaudi. In questo ambiente, tra queste persone, era avvenuta pure la formazione di Natalia. Qui aveva cominciato a scrivere, del 1933 è il primo racconto, I bambini. Del 1942 il primo romanzo, La strada che va in città, pubblicato con altro nome a causa delle leggi razziali. Sarebbero venuti molti altri lavori di narrativa, di saggistica, di teatro, di giornalismo impegnato politicamente e socialmente. Molti riconoscimenti avrebbero ottenuto le sue opere, nel 1963 Lessico famigliare, un romanzo saggio, avrebbe vinto il Premio Strega. Altre volte la scrittrice sarebbe ricorsa a questo genere di scrittura ché molto adatto le sembrava ai suoi intenti di rappresentare e anche discutere il problema trattato. Fin dagli inizi questo si era mostrato con chiarezza. Riguardava la condizione della donna che viveva una vita difficile, che non poteva aspirare a star meglio, che si vedeva destinata alla sofferenza, alla rinuncia.

Donne, famiglie in pena saranno le protagoniste dei suoi racconti e romanzi, saranno donne che parlano in prima persona dei loro problemi, che soffrono per essi ma non al punto da farne un dramma perché disposte sono ad accettarli, a farli rientrare tra le altre cose della loro vita. Parlano di sé queste donne ma non protestano, non si ribellano a quanto succede, sono rassegnate, si accontentano, sono convinte che così doveva essere. Questo avviene pure ne Le voci della sera, romanzo ambientato nell’entroterra piemontese del secondo dopoguerra, tra famiglie borghesi, dove la donna che parla è Elsa. Dice della sua triste storia con Tommasino: stavano per sposarsi e lui improvvisamente non si è mostrato disposto perché limitato si sarebbe sentito dalla vita in famiglia. Lei lo capisce, accetta le sue convinzioni e la loro separazione. Ne soffre ma non si dispera. Elsa vive in paese, lontano dalla città. La sua famiglia ha rapporti con altre famiglie del suo e dei paesi vicini. E delle donne, giovani e vecchie, belle e brutte, sposate e non, di tutte queste famiglie la Ginzburg riporterà, nel libro, la voce, il pensiero, la condizione. Come Elsa le farà parlare di sé, della loro vita, delle loro disgrazie senza mostrarle sconvolte perché le hanno accettate, le hanno vissute, le vivono come se non potesse essere diversamente. Da tante voci che dicono di tante vite emergerà, nel romanzo, un movimento, un flusso che lo percorrerà senza sosta dall’inizio alla fine ma che rimarrà sempre in superficie, non andrà mai in profondità. Di quella vita così amara e così variamente composta, di quella condizione femminile sempre pronta ad arrendersi quasi fosse la sua maniera più naturale, la scrittrice non si soffermerà a cercare le cause remote, a dare ampie spiegazioni ma spettatrice lontana, distante rimarrà. Da sole sembreranno essersi formate quelle tante storie. A farle ottenere questo effetto sarà la sua lingua così sicura, così precisa da procedere con facilità, con rapidità tra i casi della vita, da non fermarsi mai, da rincorrere sempre quello successivo. Un tipo di espressione che da alcuni è stato criticato e da altri apprezzato perché il più idoneo l’hanno considerato a dire di tante cose, a fare tanti esempi di quella tristezza femminile così cara alla Ginzburg.

Antonio Stanca