Lettera a Dicembre
di Luca Imperiale –
Ciao Dicembre,
perdona la mia freddezza mista a cinismo. Ti scrivo per chiederti, oppure per pregarti, se pur bestemmiando nelle viscere, di liberare il buon vecchio Natale.
Forse neppuro leggerai questa mia lettera, non la leggerai affatto o magari lo farai soltanto per educazione, ma con la distrazione di chi sta preparando l’altare mondano, oppure sai già ˗ qui e ora ˗ persino le parole che non riuscirò a scrivere, in quanto smarrite nei labirinti di tutto il caos della disumana umanità. Io, però, non censuro il fiato che riesce ad uscire dalla bocca e dalle narici, e, genuflesso e poi seduto, sul pavimento o sui banchi castani di una piccola chiesa di periferia, ti chiedo senza urlare ma col Grido più forte dell’urlo, di liberare le serate di gelo e fuoco, di carte per la briscola e la scopa, dei racconti di intima commozione. E poi le favole, le leggende di cavalieri erranti alla ricerca di stelle comete e vecchi saggi a cavalcare renne e lune d’argento e d’oro.
Ti chiedo, pregandoti col crocefisso nel pugno chiuso, di liberare il senso del focolare, della famiglia scaldata dal bue e l’asinello, della povertà talmente povera da far piangere lacrime dissetanti e di nascita, e di ri-nascita nei pressi dei campi coltivati o ancora da coltivare e frequentati da pecore liete e i loro pastori: ti chiedo, nondimeno, di non stravolgere il significare del gregge, con i tuoi mondani motivi fatti di vizio e capitali peccati non più allo sbaraglio ma generali di eserciti di zombie scambiàti per uomini ma che, a guardar bene, non sono neppure zombie ma pupazzi di cera; ti chiedo di sacrificare l’agnello, se questo impone la tua nuova ragione del tuo nuovo gelo che non è calore né freddo, ma non chiudere nella stanza delle cose troppo inutili, il pianto di una Madre Vergine, il pianto di gioia nella vita e di gioia nella morte che scaccia la morte che tu provi a somministrare in massicce dosi di incubi di solitudine che non hanno mai veduto la solitudine feconda e compagna della sequela fatta di carne, ossa, e tutti i desidèri mendicanti delle genti.
Non offenderti, Dicembre, se non ti invito a giocare a rimpiattino: è soltanto un ricordo che tu vuoi cancellare insieme ai rintocchi dell’antico campanile e le luci appese sui muri delle case di fame e rosario, di nuove albe e antichi tramonti lungo la Via del Natale e dell’origine del tuo essere figlio dell’inverno e delle coperte d’affezione purissima. Lo so bene che stai piangendo, vicino a quella casa all’angolo che fu d’amore, abbracci, treni verso i campi di lucciole e pallottole, e poi i ritorni e le rughe che solcano i sorrisi; lo so bene che stai piangendo travolto dai secoli nei secoli di sapienza rinchiusa nella stanza delle cose inutili, dove, nell’angolo dimenticato persino dalla stessa dimenticanza, giace il calice degli inferi ridotti in cenere e del Regno vicino, ignorato e comunque di Misericordia e Perdono, fino al “Parusiaco” ultimo venire di un eterno Natale.
Adesso ti saluto, Dicembre. Vado a scrutare altri ricordi di luci, di ombre e poi ancora luci, e accanto a me c’eri proprio tu, Dicembre, con le virtù sotto il cappello e l’immagine del Rivoluzionario nella tasca del cappotto.
Luca Imperiale
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