di Antonio Stanca –

Pralève e altri racconti di montagna di Lalla Romano (Demonte, Cuneo, 1906-Milano, 2001) era comparso postumo, nel 2017, per conto della casa editrice Lindau ed ora è stato ristampato dal Gruppo Editoriale GEDI nella serie “Storie di Montagna”.
È una raccolta di racconti nei quali la Romano scrive dei luoghi dell’alta Val D’Aosta dove aveva villeggiato. Pralève occupa lo spazio maggiore e a sua volta contiene brevi narrazioni separate relative a personaggi o situazioni legate a quel posto. È un paese a duemila metri di altitudine dove la Romano aveva trascorso per molti anni il mese di Luglio. Attirata era stata dalla natura selvaggia del luogo, dall’asprezza del paesaggio, dalla sua varietà, picchi montuosi, rocce, dirupi, torrenti, prati, burroni, boschi, sentieri, dalla scarsa popolazione che lo occupava e che non aumentava di molto neanche d’estate essendo pochi i turisti, dal sistema di vita che vigeva piuttosto primitivo anche se non privo di segreti, di scandali, di pericoli. A lei che aveva un carattere difficile, poco disposto verso l’esterno, che amava la solitudine, era sembrato il posto ideale per le vacanze.

La Romano veniva allora da Torino dove viveva col marito, Innocenzo, e il figlio. A Torino si era laureata in Lettere nel 1928 e aveva insegnato presso le scuole medie. In seguito, dopo la seconda guerra mondiale, la famiglia si era trasferita a Milano. Lalla aveva preso parte alla guerra partigiana ed ora a Milano era tornata ad insegnare.  In particolare alla poesia e alla pittura si era dedicata fino a quel momento. Aveva cominciato a pubblicare. Eugenio Montale l’aveva incoraggiata a continuare. Lo avrebbe fatto ma col tempo sarebbe diventata anche una scrittrice. Cesare Pavese, Mario Soldati ed altri noti intellettuali e scrittori erano stati suoi compagni di scuola al liceo di Cuneo nonché amici e probabilmente non era riuscita a sottrarsi al loro fascino di scrittori. Nel 1951 con Le Metamorfosi, una serie di brani dove dice dei suoi sogni, esordisce nella narrativa, nel 1953 verrà il romanzo Maria, nel 1957 Tetto murato, entrambi impegnati a rappresentare ambienti familiari, problemi femminili. Saranno gli ambienti, i problemi che ricorreranno nei suoi romanzi e racconti, ci sarà molto di autobiografico in questi, molto di quel malessere, di quella tensione, di quell’inquietudine che le erano proprie, di quelle asprezze, di quei dissidi, di quelle incomprensioni tipiche delle famiglie della borghesia italiana dalle quali proveniva. Della sua e della vita di altre donne si alimenterà la narrativa della Romano, dei problemi, dei disagi sofferti nella sua e in altre famiglie, in altre case. Vecchie e giovani, belle e brutte, padrone e serve, ricche e povere, mogli e madri e figlie e nipoti, di famiglie buone e cattive, antiche e moderne, tante saranno le donne delle sue opere, tante le loro condizioni e tutte diventeranno elementi di scrittura, personaggi, motivi di arte.

Nel 1969 col romanzo Le parole tra noi leggere vince il Premio Strega e diventa nota al pubblico italiano e straniero. Anche qui tornerà la sua vita, stavolta nella forma del difficile rapporto col figlio.

Molta altra sarà la sua produzione narrativa, scriverà pure di attualità e per giornali importanti, svolgerà attività di traduttrice, di critica d’arte, di bibliotecaria, in molti sensi, compreso quello sociale, politico, si applicherà. Sarà infaticabile, inarrestabile, la si troverà ovunque fin quando nel 2001, a novantacinque anni, una grave malattia non la priverà prima della vista e poi della vita.

A Pralève, dunque, ci era andata d’estate da quando aveva trent’anni e poi ci aveva scritto. Un diario di viaggio sembra il libro mentre è un documento, tra i migliori, per capire come la Romano si poneva di fronte a quanto vedeva, come procedeva nella scrittura. Era come nella sua vita, la sua scrittura era uno sguardo che penetrava a fondo, al quale servivano pochi particolari per cogliere tutto, per sapere delle verità nascoste, dei segreti non detti. Non solo le persone ma anche gli elementi naturali, le rocce, le piante, gli animali, entravano a far parte di quel movimento, partecipavano di quelle scoperte. Niente sfuggiva all’indagine della Romano, le bastava poco per capire. Quei luoghi, Pralève e dintorni, le erano piaciuti e vi era tornata per molti anni. Le persone, in particolare donne del posto o lì venute, le case, le situazioni si erano avvicendate, erano cambiate ma per lei c’erano sempre e comprendevano anche quanto le aveva precedute, i tempi, i luoghi più remoti. Alcune vicende, di prima e di dopo, le erano, però, rimaste ignote e questo la faceva sentire partecipe di un mistero, di un immenso mistero giacché immenso, senza fine era il luogo, le valli, le montagne, che lo aveva visto nascere. Da qui il tono poetico, da favola della lingua di quest’opera, quello che giunge opportuno a ridurre certi modi espressivi piuttosto accesi, determinati.

La poetessa non scompare mai nella sua scrittura né vi scompare la pittrice, erano stati gli aspetti primi della sua ispirazione, non potevano tacere. La loro leggerezza sarebbe intervenuta a mitigare la carica della Romano scrittrice, delle sue frasi brevi, incalzanti.

Antonio Stanca