di Antonio Stanca –

Il settimo numero della serie “La poesia è di tutti” promossa dal Corriere della Sera è stato dedicato alla breve raccolta Una poesia è un gesto verso casa del poeta afroamericano Jericho Brown, pseudonimo di Nelson Demery III. È nato a Shreveport, Louisiana, nel 1976, si è laureato a New Orleans e ha svolto il dottorato di ricerca all’Università di Houston. Questa è stata la prima sede del suo insegnamento universitario. È passato poi ad altre Università e dal 2013 all’Università “Emory” di Atlanta dirige il programma di scrittura creativa. La prima raccolta di poesie risale al 2008, al 2019 la terza, La Tradizione, che avrebbe meritato il prestigioso premio Pulitzer 2020. Non sarebbero mancati altri riconoscimenti per le altre opere poetiche ma La Tradizione sarebbe rimasta la più nota. Dalla sua versione italiana, curata da Antonella Francini presso Donzelli nel 2022, sono state estratte le poesie comprese in questo piccolo volume. Anche il titolo, Una poesia è un gesto verso casa, è un verso di uno dei suoi componimenti. Lo si potrebbe considerare sufficiente, da solo, a far capire tanto, tutto di Brown. Di lui afroamericano e di tutti gli afroamericani scrive il Brown poeta, di tutta quella gente che negli Stati Uniti non è accettata, non è trattata ma esposta a rischi, pericoli, fatta vittima di violenza, di pene. Quasi ognuno dei componimenti della raccolta gli è stato ispirato da un grave incidente o episodio verificatosi tra un povero, indifeso afroamericano e la polizia locale e conclusosi con la punizione se non con la morte di quello.

Una gente, un popolo senza patria, senza terra, senza casa sono diventati gli afroamericani negli Stati Uniti, malvisti, odiati, perseguitati sono e così è stato per lui, Brown, quando era ancora giovane, così per quelli di casa sua, per i loro simili. Di tutti questi è diventato ora il cantore, di tanti drammi il poeta. Un dramma è non avere una casa per sé, la famiglia, i figli e lui, con la sua poesia, vuole dirlo, farlo sapere, vuole compensare, colmare la mancanza. Non evade, non sogna il poeta ma rimane per terra, tra quanto succede, vede chi soffre e ne fa il suo eroe. Vera, dolorosa, violenta come quella sofferenza è la sua poesia, non sta lontana dalla vita ma quanto mai vicina, vuole aiutare, vuole farsi la sua voce. La voce di una gente, di una comunità che anela a vedere riconosciute le sue esigenze, soddisfatti i suoi diritti ma che ancora in uno stato di grave discriminazione è tenuta, ancora all’esclusione, all’emarginazione è condannata.

Non distanza ci poteva essere nella poesia di un afroamericano come Brown ma partecipazione, adesione. Un atto di denuncia, di protesta voleva essere, accusare voleva chi colpiva, chi faceva soffrire. I suoi versi, pur senza rinunciare ad effetti lirici, ad immagini emblematiche, allusive, a delicati frangenti di luce, colore, suono, erano la rivolta del suo popolo, era il suo canto mentre avanzava contro il nemico. Non aveva dimenticato quel popolo Brown, non lo avrebbe mai fatto. Altero, capace, sicuro come ogni afroamericano sarebbe stato anche da professore, anche da poeta. Non avrebbe cercato fuori, lontano quanto necessario per fare arte, lo avrebbe ricavato dalla sua vita, dalla sua storia perché simili a tante altre. Poeta era stato ancor prima di cominciare a pubblicare. Naturale, innato, istintivo quel suo spirito libero, particolare quella sua anima così disposta verso gli altri da non separarsi neanche quando avrebbe potuto: è stato come se tutti avesse voluto contenere, come se di tutti avesse voluto essere il banditore.

Antonio Stanca