di Milena Magnani –

E non c’è più bellezza e conforto
se non nello sguardo che fissa l’orrore,
gli tiene testa e,
nella coscienza irriducibile della negatività,
ritiene la possibilità del meglio.
Adorno,  Minima moralia

Ho subìto la dittatura fascista, figurati se potevo accettare quella staliniana.

Boris Pahor, scrittore sloveno di Trieste. Candidato più volte al Premio Nobel per la Letteratura. Ci ha lasciato a 108 anni. Per omaggiarlo riporto qui un’intervista che gli feci 11 anni fa quando lui aveva 97 anni portati con la stessa leggerezza con cui, accettando  questa intervista, mi chiese di non perdere però tempo a descrivere la stanza o il colore della camicia che indossa.

Testimone e protagonista di un’epoca tragica, aveva  vissuto l’esperienza della persecuzione fascista contro la minoranza slovena e, successivamente, quella dell’internamento nei  lager nazisti di Natzweiler-Struthof, Dachau e Bergen-Belsen.

Schieratosi contro tutte le dittature, negli anni non risparmiò la propria critica contro i crimini compiuti dal comunismo Jugoslavo.

Posizione quest’ultima che gli costò la messa al bando della sua opera  insieme al divieto di entrare in territorio jugoslavo. 

Pur avendo scritto i suoi romanzi negli anni 50 e 60  è stato ignorato dalla grande editoria italiana per quasi quarant’anni, trascorsi i quali, con la pubblicazione di  Necropoli nel 2003, per opera dell’editore  Fazi, è stato riconosciuto come  uno dei più importanti scrittori europei contemporanei.

Come spiega i quarant’anni di indifferenza italiana verso la sua produzione letteraria? 

Semplicemente non esistevo, la cosa è molto chiara. Quando uno non esiste tutto quello che fa o non fa cade  praticamente nel vuoto, non c’è.  Lei si meraviglia perché si rivolge a me come si rivolgerebbe alla  gente della cultura italiana in generale,  ma io sono uno sloveno di Trieste e noi  sloveni di Trieste praticamente per tanti anni non siamo esistiti. 

Se lei sente parlare di comunità slovena in Italia ne sente parlare ancora oggi come se fosse una specie di macchia d’olio, ma noi siamo qua da 12 secoli, lo diceva anche Scipio  Slataper, un grande scrittore che forse è poco conosciuto in Italia, noi sloveni siamo qua al bordo dell’adriatico da 12 secoli.   Il fatto è che  le diverse parti che compongono il nostro popolo sono sempre state smembrate. Nella storia abbiamo subito continue occupazioni e continuamente abbiamo dovuto lasciare dei pezzi, all’Austria, alla prima Jugoslavia, all’Italia, alla seconda Jugoslavia e ancora siamo lì.

Quando cominciò  il fascismo che era il 20, perché qui a Trieste non ha atteso che Mussolini andasse al governo, qui ha cominciato due anni prima,  la cosa che i fascisti fecero subito fu di appiccare il fuoco  alle Case della Cultura Slovena. Io ce l’ho qui negli occhi sa, La Narodni Dom,  era un palazzo di sei piani, grande, con facciate che avevano anche 15 finestre, c’era un grande teatro che avevano costruito  i nostri padri e i nostri nonni, sale di lettura, sale di danza poi era incluso un albergo, un caffè e un bar, insomma…

Ecco questo che le ho detto  brucia tutto in una volta, io avevo 7 anni e si immagini come l’ho vissuto.

Poi quando Mussolini andò  al governo allora ecco che cominciò  l’annientamento statale e sistematico di tutto quello che era nostro, quindi lingua,  scuole, libri, organizzazioni… ci hanno costretto  a  cambiare  i nostri nomi e cognomi con nomi e cognomi italiani  in maniera tale che dovevamo sparire no? Noi e i croati dell’Istria, farci sparire, questo era il piano.

Anche la sua famiglia fu sottoposta a questo cambiamento forzato del nome ?

Ride: Tutti mi domandano questo sa?  Ma la mia famiglia ha avuto fortuna perché mio padre era un venditore ambulante, di piazza di Ponterosso e l’avevano lasciato fuori per dimenticanza, no?

Infatti  al cimitero c’è una croce con sopra scritto il nostro cognome  Pahor  e quella croce ha passato il fascismo sana e salva.

Nel suo romanzo, Qui è proibito parlare, lei descrive una resistenza antifascista  fatta di carta, di libri letti clandestinamente.. di lezioni tenute in luoghi nascosti… di letture segrete di poesie di Ivan Cankar,  Srecko Kosovel e di altri autori messi all’indice …. Una vera e propria lotta  per la sopravvivenza culturale…

Noi sloveni siamo un popolo che ha lottato duramente durante il fascismo, in maniera molto seria,  abbiamo sperimentato contro di noi una volontà di annientamento, e siamo riusciti a resistere. Tra noi ci sono stati migliaia tra incarcerati,  esuli e deportati nei campi di concentramento fascisti e nazisti, e ci sono stati tantissimi morti.   Per tutto il fascismo contro di noi si era scatenata una propaganda  che  non faceva che denigrarci “brutti sciavi, sciavi che non hanno neanche  una lingua”.

All’inizio una parte dei nostri giovani provò anche a fare delle azioni di resistenza armata che finirono poi con delle condanne a morte, pensi che quando i fascisti condannarono a morte quattro ragazzi sloveni perché accusati di aver orchestrato  un attentato, “Il popolo d’Italia” che era il giornale fondato da Mussolini, in quell’occasione ci paragonò a cimici che  attaccano un’abitazione… capisce? Avevano occupato le nostre terre e ci defiivano come cimici, che bisognava schiacciare per liberarsene definitivamente…

La lingua negata, è l’elemento fondativo  del suo approccio alla realtà.    Non a caso, nonostante lei sia stato per tanti anni professore di lingua e letteratura italiana,  ha scritto  i suoi romanzi rigorosamente in lingua slovena, quella lingua che i fascisti avevano cercato di sopprimere come“barbarismo slavo” . Che cosa ha significato, per lei, battersi per la sopravvivenza di un’identità negata?

Guardi il dramma di quando il fascismo ci ha proibito l’uso della lingua è  che questo voleva dire, non solo che dovevi smettere di parlare sloveno, ma  che dovevi anche diventare un altro, lasciare il tuo modo di essere , lasciare la tua coscienza autentica e dovevi  cominciare a parlare e scrivere come uno che si sente italiano e questa ovviamente è una violenza  che non si può accettare dentro la vita di nessuno.

Si immagina quando ero ragazzino che dovevo scrivere un tema per essere promosso, non potevo scrivere un tema mio vero, da sloveno, per dire “voi altri italiani non mi sottomettete, io non vi voglio, eccetera”.. non potevo fare un tema così, perché si doveva  scrivere un tema secondo quello che era la storia italiana, la storia gloriosa, di vittorie delle giornate di Milano, di Garibaldi, dovevi immedesimarti in quello che non eri, è proprio quello là che io non sono stato capace di fare. E’ come se ci avessero provato a mettere le museruole.

Lo ha scritto bene Sergio Salvi nel suo bellissimo studio “Le lingue tagliate”, in cui parla delle  lingue parlate in Italia che la cultura dominante ha sempre provato  ad  assimilare. 

Se ci pensa in questo discorso della lingua c’è qualcosa che riguarda anche le nuove generazioni di immigrati che arrivano in Europa, se ai padri è concesso di parlare la lingua del posto in modo approssimativo, così e così, le seconde generazioni devono smettere di sentirsi arabi o africani  e devono cominciare a sentirsi francesi, italiani, insomma, si trovano a dover compiere uno sradicamento…no?

E’ possibile rispetto a questa nuova realtà sociale immaginare uno scenario multiculturale in cui  diverse tradizioni e culture possano convivere… o vede questo obiettivo come  una sfida persa in partenza..

No io credo che non è persa in partenza, però devo anche dire che l’idea di una società multietnica si scontra con questa globalizzazione che è a base di denaro, è a base di capitale e non può riuscire perché la verità è che quelli  che hanno il capitale sono forti e hanno la possibilità di imporre troppe cose.

Oltre al tema delle persecuzioni  fasciste in alcuni romanzi, come in“Necropoli”, lei si fa testimone dell’esperienza tragica del lager.

Rispetto a questo  mi sono chiesta se ci fosse stato un contatto tra lei e Primo Levi, soprattutto negli anni 70 in cui in Italia  il tema dell’olocausto  cominciò a porsi  al  centro di una certa riflessione culturale.

Io a Primo Levi gli ho mandato la mia “Necropoli” tradotta in italiano e battuta a macchina, ma non mi ha mai risposto.

Gli ho chiesto due volte che mi dicesse cosa ne pensava,  di darmi un giudizio, dal momento che nessuno mi rispondeva… Ma non ho mai ricevuto una risposta, niente…

Lui aveva del lavoro sopra la testa e io adesso lo capisco, lo so bene ora  che il mio nome circola e mi devo difendere dai diversi inviti che ricevo continuamente… si è sopraffatti da una mole di proposte…

E così in quegli anni lei rimase nell’ombra del nostro confine orientale  mentre a prendere voce nel dibattito sull’olocausto erano altre persone

Sì,  si capisce che non mi sentivo bene, però  capivo, capivo  che un editore italiano insomma.. trovava difficoltà nella  traduzione di uno sloveno di Trieste perché.. avrebbe dovuto parlare dell’autore e non era una cosa semplice in Italia..

Adesso in parte il clima è cambiato, diciamo che le cose si sono evolute…

Primo Levi scrisse  che rispetto alla tragedia dei lager la parola avrebbe dovuto essere data ai morti, neppure i sopravvissuti avrebbero dovuto prendere parola…

Io sono contrario a questa idea che soltanto i morti avrebbero potuto comunicare il lager, io non sono d’accordo, io dico che quello che ho raccontato è “in onore dei morti”.

Tenga poi presente che nei lager il confine tra la vita e la morte non è stato molto chiaro, molti sono morti senza aver avuto prima neanche più la consapevolezza di essere dei viventi… soprattutto a causa della dissenteria, che toglieva via tutto quello che era liquido, e quando non si poteva più stare in piedi per andare ai gabinetti che bisognava sdraiarsi sul pagliericcio e usciva tutto da sotto praticamente, a un certo momento, usciva anche il cervello e non si pensava più niente.. quello lì magari viveva ancora un mese o due che non aveva più nessun coscienza di essere ancora vivo… le cellule si rattrappivano … e quando quelli che potevano ancora camminare lo vedevano,  capivano la fine che gli toccava  di fare e come sarebbero diventati anche loro di lì a breve… e dove sarebbero finiti, nel forno crematorio.

Lei ha visto da vicino il forno crematorio…

Io il primo orrore l’ho vissuto  a sette anni a Trieste con la Casa della Cultura che bruciava, con tutte quelle finestre che ardevano… E dopo l’ho vissuto  in Germania, no? Lì la prima volta che ho visto il fumaiolo, di notte,  sopra il forno crematorio, che c’erano le fiammelle,  sa cosa ho pensato? Ho pensato: quelle fiammelle le hanno accese i fascisti a Trieste nel 1920…

In Necropoli mi ha colpito l’immagine di quella  fila di internati con le divise a righe che marciano nella neve per ritornare al lager  mentre due ragazzine, ferme sul marciapiede, sembrano non accorgersi minimamente di loro, imperturbabili godono il  paesaggio, la neve e i barbagli del sole.  Lei scrive: E’ possibile, allora,   inoculare negli uomini un disprezzo così radicale per le razze inferiori da far sì che due ragazze, camminando sul marciapiede, riescano a far sparire con la loro freddezza un corteo di schiavi.

E’ un’immagine molto forte e porta a domandarsi se, in quelle due ragazzine, non ci sia qualche cosa di noi. Penso soprattutto ai giovani di oggi e mi domando  se saranno in grado di difendersi da una cultura del disprezzo oggi propagandata e pervasiva, o se sapranno trovare  gli strumenti per  far tesoro di una testimonianza come la sua …

Potrebbero far tesoro di un’esperienza come la mia, certo, se questa esperienza fosse presa in mano da chi gestisce le giovani generazioni, perché i giovani non è vero che sono menefreghisti. Io ho fatto 130 incontri  con una gioventù che mi ha ascoltato per ore senza fare una mossa quindi vuol dire che provavano interesse nel mio racconto. Loro capiscono che io racconto le cose che ho vissuto, non vado ad inventarmi delle cose straordinarie , non solo Jules Verne, parlo di fatti realmente successi…

 Con la sua testimonianza lei sembra quasi che metterci  in guardia circa il fatto che, a ben guardare,  quegli avvenimenti storici non sono poi così lontani  nel tempo,  anzi, sono talmente vicini da stare dentro il tempo  della sua vita… A questo proposito non le pare che la democrazia italiana sia pericolosamente  ancora a rischio…

A rischio sì, questo è poco ma sicuro! Io l’ho detto, lo dicevo già in Necropoli quarant’anni fa. Il problema è che  il popolo non sente di dover controllare come si sviluppa la società no? Il  popolo si si lascia infinocchiare, si lascia dire da chi comanda come deve pensare, se lo lascia dire da chi lo fa sperare.

Purtroppo in questa società c’è stata un’evoluzione dal punto di vista tecnico molto speciale soprattutto della televisione tanto che il popolo non arriva più ad avere un proprio pensiero.

Leggendo Una primavera difficile, mi sono domandata se chi, come lei, ha attraversato l’inferno  dei lager, sia in grado di tratteggiare un modello sociale in grado di ripararci da un certo tipo di degenerazione…

Io sono stato circa un anno e mezzo in sanatorio in Francia, lì dove nasce il mio romanzo Una primavera difficile,  che è autobiografico al 100 per 100, e lì ho avuto l’occasione di studiare e ho fatto l’università francese su una sedia sdraio, sì  avevo già studiato a  Padova con Diego Valeri i poeti francesi e Baudelaire,  le poesie e  les Petits Poèmes en prose, e poi i classici francesi ma quello che mi interessava di più era la questione sociale, mi sono letto tutto quello che apparteneva al marxismo.

E mi sono convinto però che l’ideale non è distruggere il capitale ma frenarlo… insomma di prendere quel   tanto che occorre per sanità per le cose della comunità in generale.

Sono diventato una specie di socialdemocratico sempre di sinistra sì ma contro tutte le dittature quindi anche quella slovena, e infatti dopo aver vissuto una dittatura fascista che mi ha rovinato la gioventù, una nazista che mi ha portato vicino al forno crematorio, come potevo accettare una dittatura che si veniva a piazzare dietro la porta di casa, alla maniera staliniana qua a Lubiana? …insomma portare lo stalinismo nel mar adriatico era il colmo dei colmi… per fare la critica a questa cosa,  per quanto io vivessi in Italia, mi sono messo a pubblicare una rivista.

Lei cominciò a pubblicare la rivista Zaliv (Golfo) negli anni 60 a Trieste, rivista in cui pubblicò l’intervista allo scrittore Edvard  Kocbek che le costò una dura presa di posizione da parte del regime jugoslavo.  

Tutto il tempo veramente ero malvisto, no? La rivista nasce nel 66, veramente un tentativo di critica io l’avevo già fatto nel 53, feci una critica  alla politica comunista slovena rispetto al tema della minoranza linguistica… e già lì presero dei provvedimenti …

Poi sì c’è stato quel fatto del mio amico e grande poeta: Edvard  Kocbek.

Di suo in italiano può trovare la “Compagnia”, che è un libro bellissimo come descrizione della lotta partigiana..

Luiera un cristiano sociale nella maniera personalista francese, quelli di Mounier, quelli della  rivista  “Esprit” per intenderci.

Aveva combattuto contro l’occupazione hitleriana,  e aveva partecipato  insieme a comunisti e liberali alla costituzione del Fronte di liberazione sloveno. 

Quando i comunisti andarono al potere, in un primo momento  lui fu considerato un elemento di spicco dalla guida politica comunista, solo che poi, un po’ alla volta,  la componente cattolica slovena venne eliminata dalla scena e Kocbek fu progressivamente espulso dalla vita pubblica ridotto al silenzio.

Beh insomma nel 75 io l’avevo convinto a esprimersi pubblicamente sulla nostra rivista, a rilasciare  una specie di intervista, con domande sulla sua vita, sui suoi studi ma anche  sulle sue opinioni circa il comunismo jugoslavo. Un’intervista che poi io e   Alojz Rebula, pubblicammo in un libretto che intitolammo «Edvard Kocbek, un testimone del nostro tempo», in cui Kocbek denunciava una serie impressionante di crimini compiuti tra il 1945 e il 1946 dalla polizia di Tito, tra cui il massacro di circa dodicimila domobranci.  

E lì  con la pubblicazione di quel nostro libretto c’è stato il pandemonio sa?

Mica solo la Slovenia,  tutta la Jugoslavia era sotto sopra. 

Kocbek fu isolato ancora di più, anche se aveva un amico tedesco Heinrich Böll che era un Nobel tedesco amico suo, e che prese le sue difese.

E comunque subito dopo la pubblicazione di questo libricino  succede che devo partire con mia moglie per  andare a casa sua  in Slovenia e appena passiamo di là ci arrestano.

Insomma hanno fatto in maniera che mi hanno tolto il passaporto, mi hanno fatto un anno di non poter entrare in Jugoslavia,  poi me ne hanno dati anche altri due anni di non andare e non so neanche perché… per qualche mia dichiarazione….

Insomma ero uno che dava fastidio…

Dicono che lei con questa sua rivista lei sia stato un punto di riferimento per alcune generazioni di giovani autori sloveni…

La posizione che io avevo sulla mia rivista era quella di ribadire che  la lotta di liberazione era stata per l’Unità del popolo sloveno e non certo per avere un obbrobrio di dittatura…

…forse uno degli scrittori giovani che capiva che noi avevamo ragione a pensare all’Unione del popolo sloveno, fu Drago Jancar perché  lui capiva che gli sloveni  che vivevano in Jugolslavia erano tutto sommato una minoranza anche loro. Erano un milione e mezzo di persone però erano gli unici che parlavano sloveno,  il resto  o era serbo-croato o macedone.  Sarà che lui era nativo di Maribor quindi vicino al confine austriaco e aveva provato queste difficoltà confinarie,   aveva un esperienza di confine e sapeva bene cosa voleva dire fare uno sforzo per rimanere sloveni, essere interessati a resistere e a rimanere se stessi.  

Non a caso poi anche Drago Jancar è finito anche in prigione per un po’ di tempo a causa della mia rivistina..

Rispetto a questa sua sentita appartenenza ad una minoranza linguistica volevo chiederle una opinione circa la legge che tutela le minoranza linguistiche in Italia ( penso ai paesi della grecìa salentina, agli arbereshe…)

Io queste realtà le conosco tutte sa, i ladini, il Tirolo, i croati del Molise, i catalani di Alghero…  Perché dal 66 quando ho cominciato a pubblicare la mia rivistina mi sono unito a un  movimento che è L’ Associazione Internazionale per la difesa delle lingue ed delle culture minacciate  che è ancora esistente  e di cui ancora sono presidente onorario e abbiamo lavorato trent’anni per queste minoranze, andavamo da queste comunità per convincerli di rimanere fedeli, di resistere e non cedere.

Avevo un amico piemontese un poeta Tavo Burat che lottò molto per la lingua zingara, e con lui abbiamo collaborato molto alla rivista Lacio Drom…

C’è forse però da considerare che  mentre la  vostra lingua slovena è a tutti gli effetti una lingua  viva, parlata  da una  vasta comunità,insegnata  nelle scuole, oltre che lingua nazionale nella nuova Slovenia stato nazione  …ci sono altre  lingue che stanno scomparendo, lingue parlate ormai solo dagli anziani che sono destinate a diventare ,  come titola Brizio Montinaro in un suo bellissimo libro sul “grico” parlato nella penisola salentin, un  tesoro di parole morte.

Vede, con noiha collaborato qualche volta anche Pasolini e, anche lui in verità  era scettico, diceva cosa volete  voi adesso combattere per le vostre lingue, che la società va tanto  avanti come un compressore e distrugge tutto…

Diceva così però poi ha partecipato a un nostro  incontro a Lecce,  avevamo lottato due giorni per convincerlo a partecipare…

Il fatto è che se tu vuoi, puoi salvare, d’accordo che è difficile, però se uno si intestardisce poi non lascia…

Io ho dovuto discutere tanto con persone non davano il giusto valore alla propria lingua… pensi al friulano, adesso il friulano si può parlare in tutta la regione … oppure pensi alla Slavia veneta, i nostri sloveni della provincia di Udine..sono diventati italiani nel 1866 e adesso sono convinti di essere italiani, insomma  questo è il caso di chi si è lasciato infinocchiare dalla storia…

In Venezia Giulia  ho conosciuto molti sloveni che, pur potendo richiedere all’anagrafe la restituzione  del  proprio originario cognome  sloveno hanno preferito tenere il loro cognome italiano..

Dentro la minoranza slovena ci sono varie anime, c’è anche chi dice “Qua ormai c’è il plurilinguismo, sul carso ormai molta gente italiana si è comprata dei pezzi di terra, non possiamo più dire che sono terre slovene…

Ecco io da questi sono considerato un nazionalista, mentre io non lo sono, sono solo uno che pensa che una prima necessità di un’identità linguistica è quella di cercare di salvarsi no? “Salvarsi” è l’obiettivo di una comunità che vive da minoranza…

È un principio base anche della psicologia, per poter andare verso l’altro, per poter essere amico di qualcuno, devo prima essere fedele a me stesso, impossessarmi della mia radice…

E’ rispetto a  questo che lei si è trovato in contrasto con Peter Handke?

Beh con Peter Handke  eravamo su due posizioni diverse all’epoca dell’indipendenza della Slovenia…lui è un uomo di sinistra, come d’altronde anch’io,  però lui a differenza mia, era stato innamorato dell’idea di Jugoslavia come Unione  di popoli che vivono insieme  e che hanno una specie di comunità riuscita, che invece insomma già quando lui lo diceva non era vero, in verità era Tito che teneva tutto insieme… e infatti quando Tito non c’è stato più… sono venute fuori altre necessità storiche…

Peter Handke fu uno dei primi a schierarsi contro l’idea di  Slovenia come stato libero e indipendente e ha scritto anche degli articoli brutti, sa? Articoli in cui diceva delle cose che non erano vere, descriveva gli sloveni come chiusi in se stessi sul loro libricino di poesie  di Preseren che è stato un poeta e è vero ci sono anche libricini tascabili .. ma questo non vuol dire che noi siamo chiusi in noi stessi… in qualsiasi libreria slovena, vede che abbiamo tradotto la più grande letteratura europea… e ci critica come chiusi in noi stessi..

recentemente lei è stato oggetto di polemiche riguardo ad alcune sue dichiarazioni relative alla Giornata del ricordo….

Beh sì, io dico che non si possono fare delle celebrazioni parziali del ricordo, io porto rispetto per il dolore degli esuli istriani e per tutto il dramma delle foibe, è stato davvero un capitolo drammatico della storia però io dico che bisognerebbe raccontare anche quello che è stato l’anteprima in maniera da non vedere i sanguinari solo da una parte..

Non si può parlare delle foibe senza ricordare il male che i fascisti hanno fatto, non si può proporre una lettura parziale della storia… non va bene che i giovani che si recano a visitare la foiba vengano a conoscere la storia  solo dei “sanguinari slavi” per usare questo brutto termine usato da Giorgio Napolitano, senza venire a conoscenza dei sanguinari fascisti che hanno preceduto di quindici anni quelli slavi. 

Vede, la storia va raccontata tutta.

Qualche mese fa lei ha rifiutato la Civica Benemerenza assegnatagli dalla città di Trieste, perché nelle motivazioni il sindaco la descriveva come vittima della violenza nazista e ometteva di nominare la violenza fascista.

Certo che l’ho rifiutata, e perché avrei dovuto accettare?

Se il Comune di Trieste non ha potuto  inserire la parola “fascismo” nelle motivazioni del riconoscimento, allora è bene che non me lo abbia dato. Non ho mica pianto  per questo.

Qual è la forza della letteratura in un momento sociale come questo?

Jean Cayrol,  l’autore che  ha scritto Lazare parmi nous,  lui dice che uno scrittore deve mettere le mani nella merda, e io le ho messe nelle ferite, nel pus.

La ringrazio infinitamente per il tempo che ha destinato a questa intervista, io credo che il suo contributo in un momento della storia italiana come questo, sia davvero di importanza unica…

  Ma cosa vuole, queste sono idee, qui bisognerebbe che si mobilitasse non uno come me o dieci come me… bisognerebbe che ci fosse chi governa, chi ha in mano l’istruzione.

Milena Magnani