di Piero Maiorca –

Mario Pischedda, MATER, Gallizio Editore – Milano 1922

Mi par di vederlo, Mario Pischedda, quando la sera prima di andare a letto o la mattina subito dopo colazione, annota sul suo diario non le azioni della giornata (o del giorno prima) ma i pensieri che gli sono stati ispirati da un incontro, un brano musicale o letterario, un semplice ricordo ripescato dai fondali della memoria o venuto a galla spontaneamente senza un perché.

Sembra una sua esigenza naturale e istintiva quella di far rivivere con la scrittura e sottoporre ad analisi una sensazione provata, un fatto che lo ha incuriosito, una conversazione con gli amici, cogliendovi quegli aspetti culturali che sono e sono sempre stati il suo pane quotidiano.

Immagino sia nato così questo suo ultimo libro, “Mater” (Gallizio editore, Milano 2022), che Mario ha avuto la bontà di donarmi assieme a un cesto di fichi appena raccolti: divorati entrambi con incredibile voracità.

Non è dei fichi, però, che voglio parlare, ma del libro. Ho cominciato a leggerlo facendo le orecchiette alle pagine più interessanti, ma poiché queste orecchiette si succedevano a ritmo continuo, ho cambiato metodo e ora tutto il libro è zeppo di asterischi, sottolineature e note a margine e a piè di pagina.

 “Vedo foto talmente perfette”, avverte Mario, “che non mi piacciono, leggo cose scritte talmente perfette che non mi piacciono”, e tanto per ribadire il concetto, più avanti aggiunge: “Scrivo a casaccio e senza un filo conduttore, mi piace il disordine, la contraddizione e l’imperfezione…”.

Non c’era bisogno, in verità, di questa precisazione per capire che la sua scrittura è veloce come veloce è il pensiero che ad essa presiede; lui non bada troppo alle virgole o alla lettera maiuscola che i nomi propri di persona reclamano quale riconoscimento alla dignità di chi questi nomi li porta. Diceva uno scrittore di fama che a volta gli capitava di tormentarsi per un’intera giornata, roso dal dubbio se togliere oppure no una virgola da un suo scritto, giungendo infine ad alzarsi nel cuore della notte per toglierla, quella virgola, salvo poi rimetterla prima del sorgere del sole. Non credo che Mario sia stato mai tormentato da simili dubbi; lui scrive di getto (o di petto), senza ripensamenti, senza eccessive preoccupazioni per questi segni di poca o nulla sostanza (ma qui, in questa specie di anarchia, c’è Gadda che lo supera: lo supera non in difetto, ma in eccesso, essendo capace, il Gran Lombardo, di infilare i due punti anche prima o dopo un punto interrogativo), lui scrive, dicevo, senza badare ad inutili orpelli, ma andando direttamente al sodo (prendendo le cose di petto, per l’appunto), tutto sottoponendo a spietata critica e tutto travolgendo come un fiume in piena, specialmente quando si vede assediato dal pressapochismo, dalla ciarlataneria, dalla disonestà sia intellettuale che materiale.

Non sembra, ma è battagliero Mario Pischedda. Qualche sprovveduto lo direbbe un don Chisciotte o un catoniano fustigatore di costumi, ma lui è troppo intelligente per pensare di prendersela con i mulini a vento o di voler moraleggiare alla stregua della più stantia delle pinzochere. Lui, in realtà, battaglia contro le storture e le sozzure del mondo perché, come ci suggerisce citando una frase di Henry Miller, “è davvero troppo il bagaglio di orrore che ognuno di noi deve sopportare”.

Ciò non gli impedisce, tuttavia, di cambiare registro e usare toni dolci o addirittura struggenti, specialmente quando parla della madre (cui il libro evidentemente è dedicato), degli amici che non ci sono più, del disagio esistenziale, del nulla che ci circonda, della insoddisfazione perenne, dell’omologazione diffusa, oppure quando parla di arte e di poesia, dando della poesia magnifici saggi che dimostrano ampiamente la sua capacità creativa (discendendo il “poetare” dal greco “poiein”, il cui vero significato è appunto quello di “creare”). È quando tratta questi temi che la scrittura di Mario raggiunge un lirismo raro e prezioso che, senza paura di apparire esagerato e tanto meno adulatorio, mi riporta alla mente il Tìtyre tu patulè di virgiliana nonché bucolica memoria.

Come a voler dimostrare che il suo impegno non è alle esclusive dipendenze di una vis polemica mai sopita o alla passione altrettanto inestinguibile per la letteratura, la musica e l’arte in genere, Mario semina il suo libro di pagine bianche o quasi, vergandole solo di stringati aforismi e battute di spirito, indulgendo dunque all’ironia, all’autoironia e all’umorismo: non è cosa da poco, visto che l’umorismo è il condimento più saporito di ogni piatto (“mi sto smontando la testa”, “dico sempre il contrario del contrario per non dire il contrario”, “togliti le mutande che ti devo parlare”, “tutti i nudi vengono al petting”, “ehi tu, siccome immobile / dato il mortal sospiro / stette la sogliola immemore”…).

Mi ricorda Marcello Marchesi e le sue invenzioni lapidarie, spiazzanti, esilaranti; anche Marchesi impiega un’intera pagina per farvi risaltare, in mezzo a quel candore, solo poche parole improntate ai giochi di parole, ai calembour, ai paradossi (“sparatevi Breda”, “galateo, perché sei morto?”, “è uno scrittore in stato interessante. Aspetta un romanzo”, “a furia di andare a sinistra ha fatto il giro e si è ritrovato a destra”, “giovane si schianta contro un lampione. Spenti entrambi”, “non è un tipo aperto, non è nemmeno un tipo chiuso; è un tipo socchiuso. Attenti agli spifferi” …).

Ma insomma, che libro è il “Mater” di Mario Pischedda? Che sia un libro originale non c’è dubbio, e ciò lo si capisce subito anche senza aprirlo: sul frontespizio infatti non figura il nome dell’autore e sulla quarta di copertina è chiaramente specificato che non ha prezzo: non circola cioè tra i consueti canali del mercato librario, ma viene distribuito entro la cerchia ristretta degli amici di sempre, e questo è un gran peccato.

Di cosa parla? È un profluvio di pensieri che sembrano scaturire da un vulcano in eruzione, pensieri mai banali, mai scontati, pensieri che danno sempre da pensare.

C’è un filo conduttore? No, non c’è un filo conduttore. Eppure, in questo coacervo di idee solo apparentemente disordinate e sconnesse le une con le altre, non è difficile intravedere un comune denominatore, il quale, riducendo la questione all’osso, altro non è se non la contestazione dell’attuale mercificazione della cultura. Perché la cultura, al pari dell’amicizia – ammonisce Mario – rifugge dall’andare a braccetto con la convenienza. Se a ciò si aggiunge il rammarico o la rabbia per la perversione di cui soffrono anche le menti più insospettabili, contagiate da un mal inteso senso di quel che davvero è la cultura, ecco che la protesta di Mario esplode in tutto il suo potenziale.

Prendiamo i poeti. Si dice che fino ai 16 anni tutti scrivano poesie e che, passata quest’epoca, solo due categorie di persone si dedichino a questa attività: i poeti e i cretini. È un’affermazione che non si fa fatica a ritenere veritiera. Ogni anno, infatti, escono dalle tipografie centinaia di libri di poesia che i rispettivi autori stampano a proprie spese. Nessuno di questi libri si vede mai in vetrina; vengono distribuiti agli amici e ai parenti per dar loro l’agio, forse, di potersi vantare di avere un poeta nella rete delle loro amicizie o del loro parentado, ma tutti si guardano bene dal leggerne anche solo due versi. Una produzione poetica, dunque, che mira soltanto a soddisfare l’autore, dandogli l’illusione che l’essere pubblicato sia una onorificenza.

Prendiamo gli scrittori. Oggi più che mai si pubblicano libri in quantità esorbitante; la produzione di romanzi, in particolare, ha assunto dimensioni pletoriche. Pare ci siano più scrittori che lettori, tanto da far invocare una legge che freni i primi e incentivi i secondi. È pur vero che pubblicare libri non è di per sé un male; ciò che invece mostra tutta la sua scelleratezza è il sistema che presiede alla loro commercializzazione: un sistema che ha come unico fine quello del profitto, fine che persegue con tutti i mezzi, leciti e non leciti.

Pensiamo ad esempio ai premi letterari i cui giudici non sarebbe male che andassero anch’essi sottoposti a giudizio. È emblematico il caso del ministro della cultura Gennaro Sangiuliano che al premio Strega di quest’anno, della cui giuria lo stesso faceva parte, ha candidamente dichiarato di non aver letto i libri che aveva votato. “Proverò a leggerli” ha ribattuto alla presentatrice Geppi Cucciari, alla quale poco è mancato che le schizzassero gli occhi fuori dalle orbite. Ancor più penoso è il fatto che l’episodio sia passato quasi inosservato, a dimostrazione di come la cialtroneria sia entrata a pieno titolo nel costume nazionale, tanto che nessuno ci trova più niente da ridire.

Pensiamo anche ai critici letterari, non di rado asserviti alle case editrici. Come certi avvocati che nella difesa del loro cliente ne sposano non solo gli interessi ma anche la colpevolezza, identificandosi con esso a tal punto da giungere a declamare in corso di arringa “noi siamo imputati di… noi siamo accusati dell’omicidio di…”, manco dovesse toccare ad entrambi di andare in galera, così questi critici fanno fronte comune con l’autore di turno (che spesso è anche il loro committente) senza mai deflettere da una linea difensiva immancabilmente condita con i più sfacciati panegirici.

È contro questo sistema che si scaglia Mario Pischedda. Ecco perché sul frontespizio del libro non compare il nome dell’autore ed ecco perché, sottraendolo alla logica del mercato, il libro non ha prezzo. Come se lo ri-paga, allora, il suo libro? Con un altro libro, dice Mario, o con una damigiana di vino o una tanica di olio extra vergine di oliva acidità 0.4, ovvero con uno scambio di beni che, a ben vedere, altro non è se non uno scambio di doni, vero motore di ogni relazione sociale.

Ma non solo, continua Mario, chi scrive un libro dovrebbe pagare chi è disposto a leggerlo, giacché ogni lettura, per quanto piacevole possa essere, è pur sempre un impegno, vale a dire un lavoro che, come tutti i lavori, andrebbe adeguatamente retribuito.

È chiaro che si tratta di provocazioni: una strategia, forse l’unica possibile, per non lasciarsi inglobare dal sistema. Ma è altrettanto chiaro che questa strategia non potrà mai fare proseliti né sfociare in un movimento che possa far sentire la sua voce. Resta incontestabile, comunque, la validità dell’opera di Mario Pischedda, al quale va anche il merito di essere portatore di idee che né l’indifferenza né forze di segno opposto possono cancellare.

Piero Maiorca