Enrico Nascimbeni: “Ho scelto di sbagliare”
di Paolo Vincenti – La foto di copertina è bella e vale almeno quanto il libro. Ritrae l’autore, un giovane Enrico Nascimbeni, seduto su uno sgabello, che osserva il padre lavorare con sguardo adorante. E dall’altra parte della scrivania lui, “una montagna troppo alta da scalare” per dirla con Venditti, Giulio Nascimbeni, intento a ritoccare la punteggiatura di qualche articolo, folta chioma bianca, occhiali da vista e bretelle. Colpiscono l’assenza del computer e la biro convintamente impugnata dal giornalista, il giallo un po’ sbiadito della foto e l’ambiente domestico, in particolare il pesante tendaggio e il pavimento anni Settanta. Enrico all’epoca della foto era un promettente cantautore, il padre invece una firma di punta del Corriere della Sera, nonché fine letterato e biografo di Eugenio Montale (al quale Enrico Nascimbeni ha dedicato “Eugenio”, uno dei suoi pezzi più ispirati).
Un rapporto di lunga frequentazione legava il Premio Nobel per la letteratura alla famiglia di Enrico, la cui casa era frequentata anche da altri grossi calibri del panorama culturale italiano, come Alberto Moravia e Pier Paolo Pasolini. Il rapporto viscerale con il padre è spesso al centro della produzione artistica di Nascimbeni, confermato da tante canzoni, fra le quali “Mio padre adesso è un aquilone”, che sembra sia ispirata dalla poesia di Luciano Luisi: “ Ora sei calmo, finalmente, hai pace./ So che sei morto, non ho più paura/ che tu debba morire, non ho più / paura del tuo cupo, lungo rantolo / che dilatava i muri della stanza, / del tuo respiro che chiedeva aiuto / al fiato del mio petto / del grido dei tuoi occhi a supplicarmi /”. Il rapporto con il padre ritorna anche in questo libro che ho fra le mani, sorta di scombiccherato diario personale, dal titolo coraggioso: “Ho scelto di sbagliare” (Il Leggio editrice 2017). Imprescindibile è la figura di Giulio Nascimbeni, “padre e profeta” come dice Giusi Verbaro, figura reale, presenza tangibile nei giorni, ma anche inevitabilmente idealizzata; e ora che Enrico è diventato suo coetaneo, “ho gli anni di mio padre, ho le sue mani / quasi: le dita specialmente, le unghie / curve e un po’ spesse”, sembra voler dire, con Raboni. Molti sono i ricordi famigliari che legano l’autore alla sua infanzia, all’adolescenza trascorsa in un piccolo paese di campagna, ai genitori, ai nonni, anche alle sue donne. Tutto il libro è colmo di quelle “insepolte preistorie d’infanzia”, per citare sempre la Verbaro, e “assenze immedicate” che “tornano al giro frettoloso di brevi adolescenze” e sembra che lo facciano per “oggettivare il come il quando ed il perché” di una esistenza ripiegata sulle memorie lariche di un passato che ancora appartiene e pertiene. Il libro di Nascimbeni trova la sua ragione fondazionale nel memento, libera scelta imposta, direi, con un ossimoro, perché non c’è scampo per alcuni, quasi condannati al ricordo, ad un eterno “presentizzare” il passato. Certo, un libro come questo è poco contemporaneo, addirittura anacronistico, dacché la nostalgia che abita l’universo poetico dell’autore non è facile caglio per i lettori di oggi. Lui se ne frega, si vede. La coltiva, quasi fosse train de vie per sfuggire alla noia dell’oggi, alla banalità dei giorni irregimentati e incolori, alla falsità, al calcolo dell’interesse. Gli artisti vivono così, a metà strada fra terra e cielo, come gli uccelli di Aristofane, in una loro eterna Neffalococcugia.
Tecnicamente il libro si definisce un prosimetro, ossia un mix di prose e versi: alle parti più agevolmente narrative si giustappongono delle parti liriche che, se poesie in senso stretto non sono, e passi per l’a capo malandrino, si possono definire prose liriche. Una scrittura frantumata, impressionista sì, evocativa, nostalgica, che nulla concede all’artificio o alla moda letteraria, e che definirei naïve, infantile, ingenua. Una scrittura poco sorvegliata: l’autore affida alla pagina umori saperi sapori pensieri e costernazioni, secondo quella famosa tecnica dello stream of consciousness, il flusso di pensieri di joyciana memoria. La narrazione è spezzata, “svaccandrata”, per usare un termine di Nascimbeni, elisi i nessi sintattici e a volte anche grammaticali. Inesistente un progetto prestabilito, nessun preimpostato disegno, nessuna revisione posteriore, salvo quella strettamente necessaria delle regole editoriali di pubblicazione, nessuna tenuta d’insieme, ché anzi il libro sembrafrutto di assemblaggio di materiali vari ed eterogeni, una sorta di zibaldone ricomposto. Se c’è un referente letterario cui posso accostarlo è senz’altro Kerouac, ma anche Burroughs e in genere tutta la beat generation, per quel rappresentare la realtà attraverso schizzi, per rapide annotazioni, seguendo l’onda dei propri disordinati pensieri e con un linguaggio colloquiale. Infatti il linguaggio è basso, vicino al parlato, con frequente inserimento di termini gergali. Centrale, nella narrazione, è un divano verde sul quale scorre tutta la vita del protagonista. L’autore è diegetico, narra in prima persona, e questo iper soggettivismo, l’autobiografismo, che poi rappresenta il grenze fra il suo personale punto di osservazione e il mondo esterno, sono la cifra anche della produzione musicale di Nascimbeni. È la spontaneità di cui si diceva che sottrae la sua pagina a qualsiasi oscenità, ad ogni scabrosità che potrebbe derivare da un atteggiamento precostituito, dalla posa, da cui invece l’autore è lontano. L’autoreferenzialità è demistificata, l’intimismo è assolutorio, la mancanza di un ordine è ordine. Quando il vuoto sembra deflagrare, l’autore scrive, nel vano tentativo di colmarlo. La sua è una scrittura delle piccole cose, degli eventi minimi, dell’istinto selvaggio a fatica imbrigliato, del moto immoto, della visione estatica appena un attimo prima lasciata.
Paolo Vincenti
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