di Antonio Stanca –

Pietro Citati, che ancora compare nelle pagine culturali del “Corriere della Sera”, ha ottantasei anni e scrittore è stato oltre che critico letterario e di costume.

Nato a Torino nel 1930 e laureatosi in Lettere Moderne alla Scuola Normale Superiore di Pisa nel 1951 aveva già allora cominciato a scrivere per riviste quali “Il Punto” e “Paragone”. Aveva poi insegnato nelle scuole di Frascati e in altre della provincia romanae negli anni ’60 aveva iniziato a scrivere per “Il Giorno”. In seguito, anni ’70-’80, sarà critico letterario del “Corriere della Sera”, dove rimarrà fino ad oggi dopo aver collaborato, anni ’80-2000, con “la Repubblica”.

Ma non solo giornalista è stato Citati perché tanti altri interessi ha coltivato. E’ stato studioso delle antiche correnti religiose e filosofiche, della mitologia e soprattutto scrittore ha voluto essere. Nel 1996 e nel 2004 ha ottenuto importanti riconoscimenti da parte degli allora Presidenti della Repubblica, nel 1984 ha vinto il Premio Strega con l’opera Tolstoj che rientra tra le tante di Citati nelle quali risulta difficile distinguere tra la biografia romanzata e il romanzo biografico. E’ il modo di essere scrittore per un Citati che, fin dall’inizio, è stato attirato dalla figura, dalla personalità, dalla vita, dalle opere di grandi artisti, in particolare di scrittori. Su di essi si è concentrata la sua attenzione, nella loro vita ha indagato, a conoscenza è venuto di ogni particolare di essa, di ogni aspetto della loro produzione ed un’opera ha ricavato che non era soltanto di genere biografico ma andava oltre i particolari, le contingenze e raggiungeva una dimensione più estesa, si caricava di significati più alti, superava la realtà. Un romanzo, appunto, faceva Citati di ogni biografia, nei personaggi di quello trasformava gli autori studiati, nell’idea trasferiva la loro realtà. A lui interessava sapere soprattutto quanto era avvenuto nel loro animo, il processo che vi si era verificato e che li aveva fatti diventare artisti, li aveva portati ad astrarsi da ciò che li circondava, a cercare e raggiungere l’arte.

Coinvolge subito la lettura di queste opere del Citati poiché fa scoprire quanto finora non si era saputo della vita di noti autori del mondo letterario, li fa sentire vicini, fa vedere come, dove vivevano, fa capire come sono diventati scrittori. Ognuna di queste opereè come la rivelazione di un mistero, la spiegazione di un segreto e per questo finisce di essere una biografia e diventa un romanzo.

E’ un processo interminabile quello che Citati avvia ogni volta, è un movimento senza sosta tra la realtà e l’idea quello che crea e così avviene pure in La morte della farfalla (Zelda e Francis Scott Fitzgerald), opera che risale al 2006 e che quest’anno è stata ristampata dalla casa editrice Adelphi di Milano (pp.86, €10). Qui l’autore fa dei coniugi Fitzgerald i personaggi di un altro suo romanzo biografico. In esso lo scrittore e sceneggiatore americano e la moglie Zelda, vissuti tra gli ultimi anni dell’’800 e i primi decenni del ‘900, diventano i protagonisti di un’esperienza drammatica che fu quella della loro vita e che Citati trasforma in quella di un romanzo. I due, entrambi americani, si sposarono nel 1920 e vissero la loro vita tra l’America, la Francia, l’Inghilterra, l’Italia e la Svizzera.

Dopo un esordio piuttosto incerto Francis raggiunge la notorietà con romanzi che diventeranno importanti, significativi per la storia della letteratura americana quale Il grande Gatsby del 1925. Allora i Fitzgerald erano già venuti in Europa, erano in Francia, e poi si sarebbero trasferiti sulla Costa Azzurra. Conducevano una vita sfarzosa, vivevano tra case, ville e alberghi di lusso. Ovunque si trovassero vivevano all’insegna del piacere massimo, assoluto, della felicità che non conosce limiti né soste, della bellezza che non finisce mai. Come per certi personaggi dei romanzi di Francis anche per loro non era importante che la realtà fosse diversa da quella delle loro aspirazioni, dai loro sogni poiché di questi sarebbero essi sempre vissuti, sopra i tempi, sopra i luoghi si sarebbero sollevati, come farfalle avrebbero volato, infiniti, immortali sarebbero stati.

Fuori da ogni regola fu, dunque, l’unico periodo “buono” della loro vita visto che di lì a poco sarebbero comparsi per Zelda i segni di quella schizofrenia che non l’avrebbe più abbandonata e per Francis il bisogno di quell’alcol che lo avrebbe condotto alla morte.

In quegli anni “buoni” la piccola figlia, Scottie, era con loro, poi sarebbe rimasta con un’educatrice nella casa di Parigi ed ancora dopo sarebbe entrata in una costosa scuola privata. Costose sarebbero state pure le case di cura, le cliniche nelle quali, in Europa o in America, Zelda avrebbe cominciato e continuato a ricoverarsi per curare, anche se inutilmente, la sua mente malata. Sarebbe morta nel 1948 nell’incendio che avrebbe distrutto la clinica svizzera dove si trovava. Francis sarebbe morto nel 1940 a soli quarantaquattro anni. Entrambi sarebbero stati sepolti prima nel cimitero di Rockville e poi nella Chiesa di St. Mary.

Le farfalle iridescenti, che avevano creduto di essere diventati, erano morte, la vita sfavillante che avevano pensato di condurre era finita, era stata rovinata una dall’alcol e dai debiti, l’altra dalla pazzia. Questa tragica vicenda Citati ricostruisce nel libro e intanto le procura aspetti, significati che vanno oltre l’ambito puramente biografico, le fa superare i limiti del contingente e le conferisce un valore, una funzione più estesa, la fa diventare un romanzo.

Antonio Stanca