di Antonio Stanca –

Mario Calabresi ha cinquant’anni, è nato a Milano nel 1970, è figlio del commissario Luigi Calabresi, che fu ucciso dai terroristi nel 1972, durante “gli anni di piombo”, ha studiato Legge e poi Storia presso l’Università Statale di Milano, non si è laureato ed ha frequentato l’Istituto “Carlo De Martino” per formarsi al giornalismo. Dal 1998, da quando aveva ventotto anni, collabora con testate quali “La Stampa” e “la Repubblica”, è stato direttore di entrambe e molte volte è stato premiato per la sua attività giornalistica. Personaggio molto impegnato nell’osservazione, nella valutazione dei fenomeni, dei problemi di carattere politico, sociale, culturale, morale, che hanno investito il nostro Paese nei tempi moderni, è Mario Calabresi. Di questi interessi si è alimentato il suo giornalismo nonché il libro Spingendo la notte più in là (Storia della mia famiglia e di altre vittime del terrorismo). Lo scrisse nel 2007 ed ora Mondadori ne ha fatto un’Edizione Speciale. Anche scrittore è Calabresi e come nel giornalismo è soprattutto la storia d’Italia a muoverlo.

In Spingendo la notte più in là percorre con puntualità, chiarezza, spirito critico tutto l’arco di tempo degli anni ’70, in Italia detti “gli anni di piombo”. Il caso di suo padre diventa uno dei tanti verificatisi allora, su tutti indaga Calabresi nel libro.

Gravi sono le considerazioni alle quali giunge: non si è ancora formata in Italia un’opinione pubblica compatta, unica, capace di distinguere, valutare, giudicare casi di emergenza, di pericolo quali appunto gli attentati terroristici;non prevale mai una versione sola dei fatti perché si presta fede a insinuazioni, calunnie,a quanto può venire messo in circolazione per deviare, confondere. Nel caso di suo padre molti, compresi intellettuali e politici, si mostrarono allora disposti a credere a quanto gli venne ordito contro. Non si riuscì mai a superare la fase della polemica nemmeno dopo le sentenze dei tribunali. E tante altre volte in Italia si è preferito rimanere tra i dubbi, i sospetti, le supposizioni e non condividere quanto provato, dimostrato.

Altra grave constatazione che il Calabresi ha fatto nella sua opera è quella di dover riconoscere come dalle istituzioni i colpevoli dei reati, i terroristi, vengano trattati meglio delle vittime. Poco si fa per queste, per i loro congiunti, per ricordare chi erano. Gli autori del misfatto usufruiscono, invece, di riduzioni di pene e di altri vantaggi fino ad occupare incarichi di rilievo presso giornali, televisione o sedi politiche.

È grave, conclude il Calabresi, ma è quello che succede in Italia: non al “silenzio sociale” sono condannati ma intellettuali, pensatori finiscono per essere considerati gli autori di un attentato se non di una strage anche perché a tali si atteggiano, convinti si mostrano di essere i rappresentanti di ideali superiori a quelli comuni e di operare per realizzarli.

Molta luce fa l’opera del Calabresi su questo aspetto della vita, della storia d’Italia ed utile è la sua conoscenza poiché rappresenta una tappa importante nella formazione di una coscienza nazionale.

Antonio Stanca