In grazia di Dio? Uno scritto polemico
di Andrea Cariglia
Finalmente sono riuscito a vedere questo benedetto – in senso strettamente letterale – questo benedetto film di Edoardo Winspeare – In Grazia di Dio. Le aspettative non sono state deluse: nel senso che il film è esattamente come me l’aspettavo: Cioè un film coraggioso, fortemente didascalico e strettamente connotativo.
Questi non sono evidentemente difetti; ma scelte stilistiche ben ponderate; come lo stesso autore ha più volte dichiarato. Quindi provocare una discussione sul perché abbia scelto di non utilizzare un accompagnamento musicale, o perché abbia scelto di usare il dialetto di quelle parti o perché abbia immaginato il baratto come soluzione plausibile ai nostri rapporti commerciali in epoca moderna, è in effetti il fine ultimo di questo lavoro.
Perché tali scelte stilistiche sono state compiute ponderatamente appunto.
Perché è un opera che spinge al confronto, che solleva l’interesse della gente e la sprona a fare dei ragionamenti diciamo così: contro tendenza.
Quindi questo film induce il pubblico ad un atteggiamento valutativo attento. Fatto un po’ raro al giorno d’oggi, in quanto generalmente il pubblico è un esaminatore distratto. E gli interessa solo svagarsi.
In questo modo si può secondo me dimostrare che Edoardo Winspeare non solo rispetta il suo pubblico; non solo sa veramente mettere in chiaro le sue idee ( grazie ovviamente all’aiuto del suo geniale sceneggiatore Alessandro Valenti); ma ci tiene anche e fortemente a dimostrare la sua onestà intellettuale, la sua sincera preoccupazione per quello che accade alla sua gente.
Alla sua gente; questa sua preoccupazione ha delle caratteristiche un po’ ambigue, però. Una ambiguità che ha molto a che vedere con la figura artistica del personaggio Winspeare. Quel tipico atteggiamento vampiresco un po’ voyeuristico, se vogliamo, che si ritrova nel teatro. Guardando il film infatti non potevo fare a meno di figurarmi Edoardo Winspeare come una specie di Harun al-Rashid che a braccetto con il suo visir Jafar ( Alessandro Valenti) va in giro per le sue terre a vedere un po’ cosa accade fuori dagli splendori del suo palazzo regale (che oggi, ad onor del vero, è una piccola casetta in un piccolo paesino sperduto nella campagna salentina). E una volta fuori dal suo palazzo si finge – in maniera un po’ teatrale appunto – qualcun altro. Qualcuno che va in cerca di storie più vere di quelle che evocano le regali sale tra le quali passa il giorno. Come giustamente farebbe notare san Giovanni della Croce: ogni immaginazione viene dai sensi!
E succede così che Winspeare non si accontenti di trasfondere la realtà in tutto e per tutto – senza sentire la necessità di utilizzare alcuna metafora – contrariamente a quello che scrive Mauro Marino nell’editoriale di domenica scorsa su Spagine.it – trasformarla in tutto e per tutto in un realismo tout court. Proponendoci inoltre quella sua particolare visione un po’ adolescenziale: in cui le cose ci sono perché non possono mancare. E quindi questo perenne affibbiare ai poveri la parte dei poveri. Ai quali non deve essere sufficiente essere poveri come lo si può essere oggi, ma bisogna togliere loro anche la luce elettrica e anche – per esigenze della produzione esecutiva naturalmente – sbatterli in un fondo il più lontano possibile dal paese in pieno inverno e a maniche corte. Ma non solo: bisogna spingerli all’oratorio e fargli spalare una tonnellata di merda per concimare mezz’ettaro di terra. Insomma: non solo poveri, ma nel Settecento: al tempo dei feudi!
Una visione spiacevolmente un po’ monarchica in cui il gioco delle parti resta invariato se non addirittura – paradossalmente è ovvio – capovolto. Donde i poveri si sentano ricchi per un pezzetto di terra sotto la luna incantatrice e i ricchi si sentano più onesti per essere riusciti finalmente a comprendere i problemi dei loro miserabili concittadini. Quelli che solo da pochi decenni sono i loro concittadini.
In definitiva: Winspeare non è certo uno di quei tipici intellettuali del sud che sono da sempre stati il cancro della nostra terra e che in più di un’occasione l’hanno scambiata per una cattedra in parlamento. Egli la ama sinceramente come ho detto, seppur di un amore platonico. Il suo paradosso sarà stato presumibilmente quello di aver voluto essere un grande fuorilegge. E non essendoci riuscito ha trasformato quello che un tempo fu per i suoi avi il gabinete de fisica in una casa di produzione cinematografica.
Andrea Cariglia
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