di Marcello Buttazzo – La legge sullo “ius soli” è stata rinviata ancora una volta. Per la gioia dei soliti Alfano, Salvini, Calderoli, Gasparri, Brunetta, Meloni, La Russa, Di Maio. Gli 800mila ragazzi nati in Italia da migranti, regolarmente inseriti nel connettivo sociale, dovranno attendere chissà quanto per ottenere una sacrosanta cittadinanza. Le parole di Roberto Speranza, coordinatore nazionale di Mdp- Articolo 1, sono pienamente condivisibili: “È una resa culturale inaccettabile e un cedimento alla destra”. Certo, per disciplinare le leggi sui “nuovi diritti” sono necessarie sostenibili maggioranze. Sullo “ius soli” la contrarietà di Ap, di Lega Nord, di Fratelli d’Italia, di Forza Italia, di Movimento 5 Stelle, è stata determinante. Eppure, il Pd, il partito più grande del centrosinistra, dovrebbe essere più incisivo su certe tematiche. Da troppo tempo la politica nostrana discute sterilmente sulla necessità di concedere la cittadinanza dei figli degli immigrati nati in Italia. La società multietnica e multiculturale è un dato di fatto, perché le genti sono in movimento. L’Italia è terra di frontiera, aperta ai flussi della bellezza migrante. La scommessa antropologica della modernità è quella di favorire con discernimento l’integrazione, l’interazione e la condivisione. In un’era di globalizzazione, il mondo s’è ristretto sempre più: si potrebbe davvero vivere tutti assieme decorosamente. C’è chi, fra i nostri partiti politici, non vorrebbe mai estendere la cittadinanza ai figli dei migranti che nascono da noi. La giovane scrittrice Igiaga Scego, somala d’origine, ma concepita a Roma nel 1974, si è posta la legittima domanda: “L’Italia è di chi nasce, di chi la ama o di chi fortuitamente si è ritrovato con una goccia di sangue italiano nelle vene?”. La biologia delle popolazioni umane insegna che la storia delle civiltà si è sostanziata e rafforzata in seguito a inarrestabili flussi, a continui spostamenti. Qualche politico della Padania, che anacronisticamente difende la supposta “superiorità” dei gruppi etnici autoctoni, mostra una cultura superata, ristretta, provinciale. Di fatto, chi respira questa terra, chi abita il nostro cielo, e magari qui è anche nato e vissuto, chi è ossequioso delle nostre leggi e della nostra Carta Costituzionale, è uno fra noi, uno di noi. Non ha senso rinserrarsi, chiudersi a riccio. Occorrono apertura liberale e ampiezza di vedute. Fuori da ogni inasprimento ideologico e di parte, perché avere timore di estendere agli immigrati nati da noi un sistema di garanzie, di diritti e di doveri? Si può davvero stare tuti assieme in un villaggio ampio, nel rispetto delle varie e feconde religioni. La civile convivenza delle popolazioni umane è la più pacifica e non violenta rivoluzione di questa contemporaneità. In un senso più generale, in una società occidentale aperta e complessa, non ha alcun senso razionale innalzare anacronistici steccati d’opposizione antropologica, fomentando odi, incomprensioni, paure. In senso lato, si può osservare che il migrante che giunge da noi porta con sé un bagaglio straordinario di esperienze umane, di storie vissute: nel dialogo, nell’alterità, nella reciproca comprensione, risiede la cifra inerente, più profonde e virente del progresso vero, della moderna civiltà in costituzione. Il “diverso” che viene da lidi lontani, a volte, ci spaura perché forse non comprendiamo o non vogliamo capire a fondo le parti “altre” di noi, d’un sé troppo frastagliato per essere interamente decodificato e letto tranquillamente alla luce del sole. È normale che, su certe “zone oscure” o comunque non ben definite della nostra interiorità, possano avere buon gioco alcuni irrazionali cedimenti dell’anima, alcune capitolazioni della regione. C’è, purtroppo, qualche politico che su un accigliato populismo ha improntato una fiacca prassi contro l’immigrato, vellicando la pancia di certuni. Però chiunque s’ispiri a valori democratici e liberali deve giocoforza obbedire ad un obbligo morale, ad una sorta di superiore etica della responsabilità, tesa a promuovere il linguaggio della convivenza, una valida “pedagogia dell’esperienza”. L’Italia nuova deve saper coniugare i paradigmi umani e civili dello stare insieme, una ricca grammatica di valori veri, nella fondata consapevolezza che il flusso migratorio di varie genti non può essere arrestato, perché un rivo di linfe feconde scorre verso i porti del divenire.

Marcello Buttazzo, 18 settembre 2017