La visita di Antonino Di Matteo a Lecce
di Gianni Ferraris
Lunedi 23 febbraio sono arrivato nell’aula magna, con un ritardo di alcuni minuti, l’appuntamento era con il Giudice Antonino Di Matteo per una conferenza su “Mafia dal colletto bianco” organizzata dall’Università del Salento. Mal me ne incolse, per fortuna l’aula, pur se capiente, era gremitissima, solo pochi posti in piedi e un caldo incredibile.
Nella sua relazione Di Metteo si è concentrato soprattutto su due aspetti: la politica collusa e l’informazione che spesso modo tralascia aggiornamenti sulla lotta alla criminalità organizzata per dedicarsi a casi “di cassetta”. Embelmatici i plastici brunivespiani delle villette di Cogne e delle viuzze di Manduria contrapposti ai silenzi su un processo come quello Stato – mafia che sta avendo risvolti degni di note più accurate e di informazioni più dettagliate.
“E’ Un momento di bellezza parlare con i giovani in terra del sud… Noi magistrati siamo cittadini e non eroi… ” ha esordito.
Le mafie dal colletto bianco sono quelle che manovrano per avere interlocutori “affidabili” dentro le centrali del potere, nella politica, e che nella politica trovano troppo spesso fertile terreno.
Sono state citate le parole di un pentito che sedette al tavolo di Riina, Bagarella e altri capi mandamento; disse testualmente: “Se cosa nostra non avesse avuto e non avesse gli agganci che ha (in politica) sarebbe soltanto una banda di criminali ordinari, destinati a sparire in poco tempo”. La potenza di cosa nostra deriva solo da questi contatti e collusioni.
Nonostante queste convinzioni e queste riprove, lo Stato, quanto meno ambienti molto diffusi al suo interno, pare non aver mai avvertito la necessità di tagliare questo cordone che lega a filo doppio le sue strutture con quelle mafiose.
In queste condizioni la costanza di polizia e inquirenti ha vinto molte battaglie, la guerra tuttavia, “senza un cambio di marcia di organismi politici, non si potrà vincere mai”.
“Perché la politica non interviene?” si chiede Di Matteo, per sottovalutazione, ma soprattutto per convenienze elettorali e di potere. Ciò che la criminalità rappresenta in altri paesi è assolutamente marginale, mentre in Italia è devastante, i mafiosi intercettano ed utilizzano denaro pubblico, con l’utilizzo di questo denaro e con le connivenze, formano un vero e proprio potere parallelo, il cui fine ultimo non è la guerra allo Stato, ma una pacifica convivenza con esso, un riconoscimento reciproco.
Parte da lontano la storia della mafia nelle istituzioni.
Di Matteo cita un documento USA del 1943, dopo lo sbarco in Sicilia degli alleati, intitolato “prospettive di confronto con la criminalità organizzata in Sicilia”. Si valutarono allora tre ipotesi:
- Repressione di Cosa Nostra
- Tregua negoziata
- Evitare ogni controllo dell’isola (in pratica una resa).
Venne scelta la seconda possibilità, infatti molti sindaci di città importanti erano di chiara derivazione mafiosa. …“Contemporaneamente, gli Alleati affidarono molte cariche, nel governo provvisorio della Sicilia dopo lo sbarco, a noti mafiosi: Calogero Vizzini fu nominato sindaco di Villalba, Giuseppe Genco Russo divenne sindaco di Musumeci, Vincenzo Di Carlo fu nominato responsabile dell’Ufficio per la requisizione del grano, ecc. Ciò diede nuova e sicura autorità ai mafiosi, oltre a concrete possibilità di arricchimento e di accrescimento del loro potere”.
La storia prosegue ancora oggi, nonostante ciò moltissima informazione prosegue a titolare in modo fuorviante con parole come “La mafia nei salotti buoni” e ancora “la politica infiltrata dalla mafia” come se fosse un problema attuale, mentre poco si dice di una continuità da sempre che vede interessati: mafia, massoneria, servizi deviati, borghesia, imprenditoria e via dicendo.
“Sapete tutti” ha proseguito “Come sono finiti i processi dei rapporti fra cosa nostra e Andreotti? E quello con Dell’Utri?” sicuro della mancanza di informazione di moltissimi. “Andreotti, dice la sentenza della corte di Cassazione, quindi definitiva, aveva amichevoli rapporti con noti mafiosi, con loro ha interagito”. “Dell’Utri con cosa nostra aveva un solido patto per la protezione di un imprenditore milanese che si chiama Silvio Berlusconi”.
Queste sono sentenze della Corte di Cassazione, non illazioni. Eppure il messaggio che passa è quello della politicizzazione della magistratura. Sappiamo tutto delle villette di Cogne, e di Sara Scazzi, mentre sul processo sulla trattativa stato mafia in corso nessuno parla, questo è il limite dell’informazione.
“La memoria è il bene collettivo primario, e la stiamo perdendo” conservarla permette di comprendere. I rimedi a tutto ciò sono una corretta e puntuale informazione, senza scordare che è un diritto di ogni cittadino, ed è una reazione politico – giudiziaria – culturale che permetta di rendere punibili alcuni reati che al momento sono considerati “minori”, il concorso esterno altro non è che il tramite che consente le peggiori nefandezze e deve essere considerato in tutta la sua gravità, cosa che la legislazione attuale non fa. Reati come la corruzione e la turbativa d’asta, che al momento quasi sempre sono prescritti e rimangono nei fatti impuniti in quanto giudicati dalla legge “minori”. Si mandano in fumo con la prescrizione anni di lavoro di giudici e inquirenti e si rende il tutto vano offrendo la sponda proprio alle mafie che su questi reati si arricchiscono.
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