di Marcello Buttazzo –

Alcune storie di vita e d’amore colpiscono l’anima, commuovono intimamente, lasciano il segno. In questi giorni, a Brescia, Ignazio Okamoto, è deceduto, dopo 31 anni di stato vegetativo irreversibile. Nel 1988, Ignazio detto Cito restò gravemente ferito in un incidente automobilistico. Aveva 22 anni. Da allora non ha più visto la luce, è rimasto nel suo immoto limbo, assistito con cura dal padre Hector, un messicano di origine nipponiche. Il padre Hector, due anni dopo l’incidente di Ignazio, decise di lasciare il lavoro per dedicarsi completamente alle cure del figlio malato, per non lasciarlo in una struttura. Una storia estrema di devozione. Per stare accanto al suo Ignazio, papà Hector ha imparato a fare il cuoco, l’infermiere, il fisioterapista. Il giovane non si è mai svegliato. Epperò, Hector è sicuro: “A me bastava che mio figlio mi sorridesse”. Ciascuno di noi connota la vita con categorie antropologiche precipue. Di certo, a mio avviso, dignitosa e umanissima fu la scelta, anni fa, di Beppino Englaro di interrompere le terapie mediche della figlia Eluana, da 19 anni in uno stato di desolazione. Parimenti, altrettanto onorevole è l’attenzione di Hector Okamoto e di sua moglie: “Noi abbiamo fatto ciò che per noi era naturale, ce lo sentivamo dentro: volevamo che nostro figlio restasse in casa, siamo riusciti ad accudirlo prima con l’aiuto della Caritas, poi con i volontari, ma porto il massimo rispetto per chi ha deciso di percorrere strade diverse”. E questo è il punto dirimente. In tutte le grammatiche della vita e della morte, occorre sempre, il massimo contegno. E dosi sostenute di silenzio. Anche quando si parla di interrompere le terapie mediche o, eventualmente, di suicidio assistito e di “dolce morte”, è necessario più che mai approcciarsi con delicatezza e con riguardo.

Marcello Buttazzo