di Marcello Buttazzo –

La memoria collettiva si nutre di gesti simbolici, di atti d’amore. In un rogo nel ghetto di Borgo Mezzanone, in provincia di Foggia, trovò la morte un anno fa una giovane donna di origini nigeriane. La ragazza, mai identificata a causa delle estese ustioni, morì dopo atroci sofferenze al Policlinico di Bari. Ora la Fai, federazione agroalimentare dalla Cisl, ha deciso di onorare la sua memoria dedicandole una lapide nel cimitero di Bari e dando alla donna il nome di “Hope”, molto diffuso in Nigeria e che in lingua inglese vuol dire speranza. La tragica fine di “Hope” evoca drammatiche storie di caporalato. La lapide ad “Hope” è un omaggio a tutti gli ultimi, ai senza voce, ai diseredati, agli invisibili, agli sfruttati. Ovviamente, i governi devono saper dare risposte adeguate, favorendo sempre i diritti e l’inclusione sociale. In un mondo ipertecnologico e iperbulimico, non dovrebbero esistere ancora persone messe ai margini dalla cosiddetta società civile. C’è gente che fugge da guerre, da persecuzioni etniche, da nera miseria, e sogna un rifugio da noi, società del benessere. Spesso li accogliamo in luoghi degradati. Donne, uomini e bambini naufraghi su una terra insensibile. Ci chiediamo: come fanno le istituzioni a tollerare che tanti esseri umani sopravvivano, fra sporcizie e imbarbarimento, nelle baraccopoli?