di Marcello Buttazzo –

La 50enne giornalista di Perugia Laura Santi, gravemente ammalata, seguita dall’associazione Luca Coscioni, ha ottenuto dalla azienda sanitaria umbra, dopo l’intervento della commissione medica, il via libera per ricorrere al suicidio assistito. Laura, nel 2000, ha cominciato ad avvertire le prime avvisaglie della sclerosi multipla, che con l’incedere degli anni è diventata sempre più invasiva, sempre più invalidante. Ora la donna è completamente tetraplegica, ha perso le braccia. È sulla sedia a rotelle da 16 anni con spasmi dolorosi. In una accorata e amorevole intervista, la signora Santi ha espresso il suo pensiero altamente umano: “Non so quando ricorrerò al suicidio assistito e se sarà. Ho un orizzonte indefinito, ma è un orizzonte che governo io. Questo pezzo di carta che mi dice che posso morire quando voglio è la migliore cura palliativa che esista”. Laura Santi è la nona persona in Italia ad aver avuto il via libera alla “dolce morte”. È evidente che, nonostante questi casi isolati, dopo il pronunciamento della Corte Costituzionale sul caso Cappato-Dj Fabo sul “suicidio assistito”, nel nostro Paese dobbiamo patire un grave vulnus legislativo: l’assenza cioè d’una apposita, adeguata legge parlamentare. Sono commoventi le parole di Laura Santi che, ringraziando l’associazione Luca Coscioni per il sostegno ricevuto, ha affermato di aver conquistato non il diritto di morire, ma la vita. “Sono padrona della mia vita adesso”, ha sostenuto. Ed in effetti, di là dalle disquisizioni filosofiche, è bene soffermarsi su una difficile e travagliosa terra di confine, come il “fine vita”, senza alcuna complicanza ideologica o confessionale, ma sempre con un atteggiamento antropologico di misericordia, con discrezione, impiegando sempre un frasario rispettoso, sempre innamorati di questa cosa minuscola e ineludibile che è la vita.

Marcello Buttazzo