Con chi stare in quest’ora…
di Marcello Buttazzo
C’è un mondo che brucia, squassato dalle guerre, sconfitto, agonizzante. Noi occidentali, ricchi e opulenti, nei confronti dei Paesi poveri del Sud della terra abbiamo sempre adottato strategie di spoliazione, di non riconoscimento, di deprivazione. Nei mari nostri d’Europa, continuano ad arrivare quotidianamente migliaia e migliaia di disperati delle acque e delle terre, in cerca non d’un Eldorado favoloso, ma d’un porto quiete. Decisamente insopportabile è l’atteggiamento di chiusura nei confronti dei migranti di alcuni Paese europei, che innalzano anacronisticamente e volgarmente muri di filo spinato, come se l’altro da noi fosse il male assoluto. Parimenti, ancora inadeguati e incerti sono gli interventi dell’Ue su una questione che scotta. Mi ha colpito, molto positivamente, su “Avvenire” di venerdì 13 novembre, un dolce articolo di Camillo Ripamonti, presidente del Centro Astalli, che giustamente tratteggia la posizione, antropologicamente rilevante e benedetta e illuminata, di Papa Francesco. Il Santo Padre evoca una Chiesa che rassomigli a un rifugiato. Gli immigrati, che in questo momento talvolta respingiamo, hanno il volto svuotato, scavato, sporco, di Gesù. Ci vorrebbe un sussulto, un trasalimento. Non a caso Francesco parla di “umanesimo cristiano”. Scrive accoratamente Camillo Ripamonti: “Un umanesimo che si realizza solo attraverso la vicinanza a quest’umanità che è ai margini, esclusa, piegata. Guardiamo finalmente e definitivamente quest’umanità che chiede giustizia. Non distogliamo lo sguardo. I rifugiati sono l’umanità ai margini delle nostre società”. Personalmente, non farei neppure distinzione fra profughi e immigrati cosiddetti “economici”. Sono tutti fratelli, che andrebbero decorosamente accolti. La politica deve essere molto accorta, non solo a non strumentalizzare demagogicamente l’emergenza, ma deve adoperarsi per intervenire, da subito, una buona volta, pragmaticamente. In una società occidentale complessa, aperta, multietnica, multiculturale, in progressiva espansione, non ha alcun senso razionale innalzare inopportuni steccati, fomentando odi, incomprensioni, paure. Il migrante, che giunge da noi, fuggendo da guerre, persecuzioni, odi etnici, dalla fame, dalla nera miseria, dal terrorismo, carico di sogni e piccole legittime speranze, porta con sé un bagaglio straordinario di piccole esperienze umane, di storie e accadimenti vissuti: nel dialogo, nell’alterità, nella reciproca comprensione, risiede la cifra inerente, più profonda e virente del progresso vero, della moderna civiltà in costruzione. Il “diverso” che viene da lidi lontani, a volte, ci spaura, perché non comprendiamo o non vogliamo capire a fondo le parti “altre” di noi, d’un sé troppo frastagliato e intricato per essere interamente decodificato e letto tranquillamente alla luce del sole. È normale che, su certe “zone d’ombra” o comunque non ben definite della nostra interiorità, possano avere anche buon gioco alcuni irrazionali cedimenti dell’anima, alcune capitolazioni della ragione. C’è, purtroppo, qualche politico padano che su un accigliato populismo ha improntato una fiacca prassi politica contro l’immigrato e contro il clandestino, solleticando la pancia di certuni. Però chiunque s’ispiri a valori democratici e liberali deve giocoforza obbedire ad un obbligo morale, ad una sorta di superiore etica della responsabilità, tesa a promuovere il linguaggio della convivenza, una valida “pedagogia dell’esperienza”. L’Italia, la Francia, la Germania, l’Europa, devono saper coniugare i paradigmi umani e civili dello “stare insieme”, una ricca grammatica di valori autentici, nella fondata consapevolezza che il flusso migratorio di varie genti non può essere arrestato, perché un rivo inarrestabile di linfe feconde fluisce verso i porti del divenire. Camillo Ripamonti, nel suo articolo, enfatizza l’importanza di cercare il bene comune e di coltivare il dialogo fra autoctoni e migranti. Così conclude il suo scritto: “Partendo dal dialogo e dall’incontro con gli immigrati che vivono nelle nostre città, ascoltando le loro storie, si può costruire una nuova società. Il dialogo è incontrarsi per condividere un pasto. Il dialogo è parlare e scoprirsi amici. Il dialogo è vivere nello stesso quartiere e fare un pezzo di strada insieme. È trovarsi seduti uno accanto all’altro fra i banchi di scuola e scoprire la bellezza dell’incontro quotidiano. Il dialogo è capire finalmente che la libertà, il futuro, la pace sono di tutti o non sono di nessuno”.
Marcello Buttazzo
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