Il matrimonio da Gogol per Salvatore Tramacere
di Antonio Zoretti
Nello sconcerto dello spettacolo, Il matrimonio di Koreja -visto al debutto martedì 22 luglio ai Cantieri Koreja per “Il teatro e i luoghi” – vuole andare oltre il senso: teatro senza spettacolo.
L’indisciplinato Podkolesin degrada la vita coniugale. E’ un fuori tema, una parvenza. Ha nostalgia solo della vita da scapolo e non di quella a cui perverrà, per sempre, convogliando a nozze. Diventerà impossibile trovare negli eventi di scena la realtà familiare. Sarà un mancato, una mancanza; come le cose che non giungono mai a compimento, mancate appunto. Là dove si rifiuta l’unione, dettata dall’ipocrisia umana, tout court. Tutto nella smorfia dell’arte, in questa stridente caleidoscopica società dell’immagine. E Podkolesin finirà senza progetti. Il suo incipit, uguale alla fine, infligge i commedianti, rei nell’aver costruito questa falsa e stupida realtà provvisoria; questa forzata ragnatela di emozioni. Abbandonandoli alla loro perpetua mancanza, e così nella loro erranza veritieri.
Podkolesin non crederà più alla favoletta dell’amor cortese… come se i sentimenti si programmassero alla stregua di un qualsiasi intrattenimento televisivo. Così i propositi reali vengono meno e deliriamo soltanto, e differiamo la vita, illudendoci d’essere. Noi non ci apparteniamo. Siamo frustrati da un’altra realtà, illusoria e meschina. Occupiamo una vita immaginaria; credendo di pensare la nostra vita chissà cosa raccontiamo, ed essa accade altrove, in un altrove inconoscibile.
Quella raccontata ne Il matrimonio di Koreja è solo la parodia della nostra vita, la macchiettistica rappresentazione. E pertanto ci inganniamo, ed è così che Podkolesin rifiuta infine questa esperienza, cercando invece un’altra conoscenza, attraverso una via di fuga. Egli resterà dunque fuori: fuori scena!
Il dramma tratto da Nikolaj Vasil’evic Gogol’ ci racconta come ci si può imbattere in errori coniugali, nel senso ampio del termine, creando una situazione di turbamento rispetto alla quale non si può che abdicare. Il grande drammaturgo russo ci permette di indagare l’esperienza dell’unione, sganciata dall’equivoco fraudolento di questa raccapricciante finzione del mondo dello spettacolo e delle apparenze mondane. Gogol’ invita ad una forma di conoscenza reale, partecipativa, tangendo una vera esperienza di vita.
Sotto la guida di Salvatore Tramacere gli attori della Compagnia Koreja si prestano nel migliore dei modi a interpretare quest’opera e si calano con entusiasmo ed ottimamente nelle parti. Straordinari. Hanno ridestato i nostri sensi. Trionfo!
Insomma, nella debordante entità spettacolarizzata il matrimonio s’annulla, s’arresta il dì di festa, scompare infine lo sposo e monta il presagio, mutilando il respiro. S’avverte il disagio della sposa promessa e una immane tristezza invade l’aria, arrestando l’ambiente. Tutti son presi dallo sgomento: i pretendenti alla mano di Agaf’ja, gli amici, i consiglieri, la pronuba e i menestrelli. Intanto Podkolesin se ne va, lasciando gli altri ancora a cercarlo.
Nel teatro gogoliano non è l’uomo ad essere malvagio, è la società a renderlo tale; così come ne L’ispettore non è Chlestakov a spacciarsi per ispettore, bensì la corrotta burocrazia del luogo a imporgli quel ruolo. Alla fine c’è sempre un rovesciamento: arriva il vero ispettore, si scopre l’inganno dei bari ne I giocatori e fugge il fidanzato ne Il matrimonio. C’è una sorta di moralità che porta alla punizione dei colpevoli o per lo meno allo smascheramento dell’inganno. Attraverso il riso Gogol’ vuole indicare una via per modificare, rimuovere, correggere l’ingiustizia, il sopruso, la violenza che domina l’esistenza.
Ne Il matrimonio viene messa in ridicolo l’ipocrisia e l’assurdità dei matrimoni accordati anche quando gli uomini, come nel caso di Podkolesin, non sono portati alla vita coniugale e antepongono l’agio solitario del loro salotto. Come nel bellissimo finale, quando l’evasione dello sposo raffredda gli animi in tempesta dinnanzi alla imprevedibilità della vita. E gli uni non appartengono più agli altri; è il male esistenziale, tutto svanisce in questo mondano percorso e anche in avvenir. Non resta altro che sognare, poiché tutto è passato prima di cominciare…
L’opera di Koreja si cala dunque nella finzione televisiva della inondante società dello spettacolo, e gli attori si illudono di mentire, di fingersi, come accade nella interpretazione. Gli attori agiscono in una realtà virtuale e nonostante la solarità delle loro azioni seguitano a naufragare… Inginocchiandosi davanti alla rappresentazione dei codici mondani; senza soluzione che li sollevi dagli incarichi sociali. Senza disporre mai della vita vera adducono la loro esistenza a simulacri.
Quest’opera teatrale la si può comprendere in questa chiave, anche con l’apparato scenografico realizzato. Questo mondo moderno e contemporaneo destituisce la realtà con un mondo di simulazione, così che noi non conosciamo mai una esperienza autentica, ma raffigurazioni di una realtà assente.
Alla fine abbandoniamo la scena, appunto, come il ‘nostro’ Podkolesin… lasciando i corpi dei pretendenti, compresi tutti gli astanti, immersi in un bel niente. Fuori dalla finzione, fuori dalla rappresentazione, il teatro si infischia del suo testo. Ma esso nel vero si mostra… e viene così venerato dalle genti che dalla platea, sulle poltrone di velluto rosso, acclamano e applaudono a lungo finché dura questa esperienza a cui son pervenute: questa… dell’esperienza autentica, di vero scopo, che prima sembrava non avvertissero. Svuotati dall’illusione d’esserci, per sopravvivere. Provando finalmente una sensazione, la quale incorpora tutti i sensi.
Cari i ‘nostri’ attori, caro il regista, cari tutti gli elettricisti, scenici, arredatori, scenografi e costumisti… E care, care le ‘nostre’ brave donne.
Bravi! Bravi tutti al Teatro Koreja.
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