di Stefan Çapaliku

Tutto cominciò da una conversazione con l’amico Don Marjan Ghega, dopo una cena nella sua parrocchia, a Velipojë di Scutari. Lui consigliava a tutti di andare a visitare Oria. 
“È il posto ideale per scrivere – disse – lì troverai Don Alessandro Mayer”. Sebbene il nome Oria non comunicasse nulla alle mie orecchie, il nome Alessandro mi avvicinava all’Italia, anche se non capivo cosa c’entrasse quel cognome tedesco con l’Italia. Mayer…
Cosi, tra qualche informazione in internet e diversi tentativi andati a vuoto di mettermi in contatto con Don Alessandro, è cominciato così il mio viaggio verso Oria. 

È cominciato con due foto sorprendenti su Wikipedia: una del castello Svevo e qui, il mio pensiero, è planato erroneamente su Italo Svevo, che ho letto e amato tanto ma che non c’entrava proprio nulla con il castello Svevo; la seconda, faceva vedere la cupola di una cattedrale circondata da impalcature. 

In ogni caso, mi sono detto, a me l’Italia piace tanto, rimane sempre la mia seconda Patria, una terra, dove vale la pena anche perdersi oppure dove restare senza sentire per forza il richiamo nostalgico del ritorno.

Fu così che una sera di maggio, mi sono trovato alla stazione ferroviaria di Brindisi. Davanti a me un uomo di mezza età, in buona salute, barbuto, energico, che mi rivolgeva la parola in un albanese impeccabile. 

Don Alessandro parla perfettamente l’albanese. E, quando diciamo che uno straniero parla albanese è come se stessimo parlando di un genio della matematica perché l’albanese per uno straniero è difficilissimo, una lingua con un sistema grammaticale pieno di eccezioni.
La serata trascorse in un flusso continuo di conversazioni e di fiducia che impose alla mia attenzione la figura attraente e forte di questo prete.L’indomani Don Alessandro sparì. Al primo piano del seminario vescovile apparve invece un giovane ragazzo, anche lui con il collare da prete, mi costrinse a parlare nel mio italiano zoppicante. Era don Francesco.

“C’è anche un altro don Francesco, qui, al seminario,” disse lui avendo in mente don Franco, il suo opposto per età.

Così, dopo aver conosciuto tre sacerdoti, ora volevo finalmente conoscere Oria. La prima impressione era stata la vista dalla finestra del seminario. Case senza tetti. Subito mi venne in mente il famoso film di Vittorio De Sica “Il tetto”, del 1956. Com’è possibile, che tutte le case qui non hanno tetto? In Albania, quando una casa è senza tetto, vuol dire che il proprietario vuole alzarla ancora in su, più in su.    

Volevo perdermi nei vicoli, contento di poterlo fare velocemente. A me piacciono i negozi. Una volta piacevano quelli di abbigliamento, adesso, invece, dopo i cinquanta, mi attirano quelli di generi alimentari, soprattutto le pescherie. Sono allora entrato in uno di questi negozi, che a Oria sono numerosi.
“Che cosa desidera?”. 
“Voglio solo vedere”, risposi in italiano, nel mio italiano. Il ragazzo sembrava turbato, fece finta di non capire il mio italiano. Fu a questo punto che, chiedendo scusa, gli dissi che ero straniero e che non parlavo bene l’italiano.
“Che lingua parlate?”
“Greco” dissi, deviando e nascondendo le mie origini. 

Perché questo istinto di nascondere le origini? Forse perché ci sono albanesi che si sono comportati male in questa terra? Si, va bene, che c’entra, io sono qui, semplicemente, per motivi culturali, dicevo fra me e me.
Non so.
Tornai così nella mia stanza e continuai a scrivere con una velocità incredibile per terminare la scrittura del mio romanzo. Le pagine scritte seguivano la stessa velocità con cui facevo conoscenza di Oria. 

C’era Maria Giovanna Fanelli che mi raccontava della Caritas Diocesana. Ho visto i negozi della Caritas che non vendevano merce con i soldi, usavano un sistema strano di punti e di crediti. Ero preso dalla meraviglia.
La domenica successiva volevo andare a Francavilla Fontana. “Sapete che non ci sono treni?”, mi dissero quando arrivai in stazione.
“Neanche uno?”.

Va bene, può capitare di non trovare un treno, ma almeno mettete un avviso che non c’è il treno, che è stata sospesa la corsa. Che cavolo!
Stupito, ho pensato di chiedere alla gente davanti ad un bar, se per caso ci fosse un autobus che andava lì. “Niente autobus”, mi disse un giovane, “ma se vuoi, vieni con me, ti accompagno io che sto per andare a Francavilla”.  Perfetto. Salii sulla macchina di Francesco e subito mi sono trovato costretto a rispondere alla domanda: “da dove svieni?”
Questa volta non ho mentito. 

Così facciamo anche noi, pensai. Se vediamo uno straniero, facciamo di tutto per aiutarlo.
“Sono amico di Don Alessandro”, dissi. 
“Lo conosci”? 
“No”, disse.
Volevo parlargli di Don Alessandro, ma che senso aveva? Uno straniero che gli parlava di un suo concittadino? 

Sarebbe stato meglio se avesse fatto conoscenza da solo, se mai avesse avuto un’occasione. Siccome la necessità, trova sempre la sua strada attraverso la casualità, lui, gli altri, potranno sempre avere l’occasione di conoscere Don Alessandro Mayer. Non perdete l’occasione.