di Paolo Vincenti – Quando Rudy Marra esordì al Festival di Sanremo del 1991, cantando “Gaetano”, io avevo vent’anni e la vita davanti. Mi piacevano, come ancora mi piacciono, gli artisti di rottura, mutevoli, strani, bizzarri, fuori dalle righe, e lui lo era parecchio, a cominciare dalla sua voce sgraziata e poco melodica che mi ricordava molto quella di Vasco Rossi (mio primo e mai tradito amore), per arrivare ai testi delle sue canzoni, molto lontani dagli stereotipi della musica nazional- popolare italiana intrisa di rimette banali e preconfezionate e dalla facile cantabilità.
Io, all’epoca, preso come ero dai cantautori storici “impegnati”, nel razzismo culturale che caratterizza una certa fase della crescita personale, odiavo la musica pop, quella che aveva monopolizzato i gusti degli adolescenti degli anni Ottanta, così troppo glam, patinata, luccicosa, per uno che ascoltava Piero Ciampi, Luigi Tenco e Gino Paoli, Pierangelo Bertoli, De Gregori, Guccini, Lolli, e compagnia cantante. Avrei poi rivalutato anche la musica pop di qualità con qualche anno e qualche lettura in più (tipo Derrida). Rudy Marra, dicevo, era fuori dagli schemi, anche come genere musicale (“e poi i generi, ognuno ha un genere: maschile femminile animale pop rock jazz sopa..”), perché era difficile collocarlo: e infatti lo stesso Marra coniò un’etichetta che poteva riassumere in qualche modo il suo eclettismo, cioè  “sopa d’amour”. “Sopa” è una distorsione del termine “zuppa” e fa riferimento a “suppa” che in dialetto salentino indica il latte coi biscotti della mattina, ma in senso spregiativo vale broscia, sbobba, minestra cattiva e indigesta, e quindi utilizzato da Marra con forte senso dell’autoironia.  “D’amour” invece faceva riferimento alla canzone “Le parole d’amore”, una delle più poetiche del suo secondo disco,  i cui versi vengono ripresi con autocitazione anche nella canzone “Ciao Luigi”, dedicata a Luigi Tenco e inserita nel terzo album di Marra destinato al mercato francese. In quel disco, una antologia intitolata “Le parole d’amore”, comparivano come inediti anche “Dal diario di bordo” e la bellissima “Ferri Piero detto l’Icaro italiano” che racconta, con taglio quasi cinematografico, di una gita scolastica a Parigi nella quale il Ferri Piero del titolo, ragazzo evidentemente problematico, cresciuto in un collegio di suore, trova l’occasione per togliersi la vita lanciandosi dalla Tour Eiffel; emblematica è l’immagine finale e rende plasticamente l’idea del volo del ragazzo che, con quella giacca e cravatta in su mentre il suo corpo vola giù, mi ricorda uno degli omini dei quadri di Magritte.

“Come eravamo stupidi, Gaetano..”. In quel tempo, appunto, io e alcuni amici della mia compagnia costituivamo un piccolo fans club non ufficiale di Rudy Marra. Bellissimo il video della canzone in cui egli cantava in un grande locale, seduto su una poltrona da barbiere e si svestiva fino restare del tutto nudo e poi, nel finale della canzone, si alzava e andava via nella semioscurità dell’hangar, mostrando il culo alla telecamera. Ancora più bello e poetico il video del suo secondo successo, “Sono felice”, con quella amarissima, antifrastica dichiarazione di felicità(sottolineata dal naso finto da pagliaccio che l’autore indossava nel video)urlata nel refrain e prontamente smentita dai versi delle strofe, e che a me ha sempre fatto venire in mente “Confessioni di un clown” di Heinrich Böll.

Il primo album, “Come eravamo stupidi”, si apre con “Pieno di Campari”, una canzone quasi demenziale, con quell’invocazione finale ad un certo Augusto e Rudy che ride, forse per fare il verso alla celebre risata di Celentano, protagonista del secondo brano, “E Celentano continua a cantare”, in cui rievoca nostalgicamente i tempi della sua infanzia adolescenza e le figure del fratello, del padre e della madre, la quale amava le canzoni del Moleggiato. La madre ritorna nella canzone “La mia bimba”, la più intensa forse, e dolce, del disco, in cui il giovane cantante rivolge una singolare dichiarazione d’amore alla propria genitrice, in pena, come tutte le mamme, per i suoi ritorni a casa a tarda notte. La terza canzone dell’album è più arrabbiata e impegnata,“In cielo, in terra e in hit parade”, in cui si parla di religione, fanatismo e del business musicale che avrebbe visto poi Marra come un corpo estraneo, un alieno, rispetto alle logiche del mercato discografico. Nell’album si trova anche la canzone “Gino e Fausto”, dedicata a Gino Bartali e Fausto Coppi e usata come sigla dei notiziari sul Giro d’Italia in quegli anni sulle reti Mediaset. “Voglio una donna” e “My sex”, dedicata al proprio pene, sono canzoni ironiche e dissacratorie e molto singolare e quasi strumentale è “Intersezione naturale”, che conclude con una coda musicale l’album.  Il secondo disco esce nel 1995. “Sopa d’amour” credo che sia il capolavoro di Marra. Già dal primo pezzo si presenta dinamitardo, controcorrente, fuori dalle mode imposte, senza referenti importanti. La condizione di apolide dal punto di vista musicale, l’occorrenza di parere senza matrici e senza direttrici, se appassiona i cultori del nuovo, dell’originale, che sono però sparuto drappello, vieppiù condanna l’autore ad una sorta di erranza, al meglio lo colloca in una terra di nessuno dove non giungono gratificazioni. Forse per questo Marra non ha più pubblicato dischi.

L’ album si apre appunto con “Disordine”, che è come il manifesto programmatico della carriera musicale di Rudy (“disordine, disordine, nessuna regola”). Poi arriva “Sono Felice”(“Ridi Rudy, ché se non ridi ti rodi”);  segue “E già”, una canzone struggente, sul difficile cammino della crescita e della presa di responsabilità, e si pone in un solco molto battuto dai cantautori italiani ma comunque con piglio originale, sempre con quella zampata che contraddistingue Rudy, soprattutto con quella voce gracchiante a metà strada fra Paolo Conte e Tom Waits. La canzone successiva è “Oh love”, pronunciata come è scritta, il che crea un evidente effetto comico, e infatti tutta la canzone è giocata sul filo del paradosso e di una corrusca ironia; nel finale della canzone compare l’espressione “sopa d’amour” che dà il titolo all’album. “Le parole d’amore” è uno dei pezzi più belli di Rudy. “Contromano” riprende il tema di “Disordine”, inneggiando agli irregolari, ai non allineati, ai delinquenti, che sono comunque tanti, e che se si uniscono possono fare la rivoluzione. Peccato che questa rivoluzione rimanga appannaggio di sognatori persi che non cambieranno mai le cose, proprio nel mentre lo cantano (“vedrai che cambierà”, che echeggia Tenco ). Ma questa canzone si segnala all’attenzione soprattutto per l’inserto del canto popolare “Santu Paulu meu de le tarante”, con una indiavolata pizzica pizzica cantata dal coro che apre e chiude la canzone. E qui bisogna dire che Rudy omaggia sì la propria terra natale, quella Galatina culla del culto di San Paolo e del tarantismo, ma lo fa, antesignano sui tempi, nel 1995, quando ancora nel Salento non era iniziato il grande revival tradizional tarantato popolare melpignanese (a proposito: come mai Marra non è stato mai invitato a cantare alla “Notte della taranta”? E dagli con gli ostracismi!). Questa canzone è passata sotto silenzio nonostante i suoi indubbi meriti, o forse proprio a cagione di essi.  “Vota Antonio” è un brano esilarante in cui nel ritornello viene citato Totò e nelle strofe vengono presi di mira stereotipi e luoghi comuni dell’Italietta e dell’italiano medio; formidabile quel “gelati” urlato da Rudy come un tempo facevano i commercianti che passavano nei nostri paesi col carretto dei gelati oppure stazionavano sulla costa, prima dell’avvento dei lidi attrezzati con relativa privatizzazione di spiagge e litorali. “Buon segno” è una canzone positiva, all’insegna dell’ottimismo e della speranza. Dopo “Dall’aeroplano”, si ascolta “Due lire”, canzone con un lungo torpedone strumentale, paranoica, che ricorda vagamente “Valium” di Vasco Rossi, per stile e intonazione, e infine, per chiudere l’album, “Ragazzino immaturo” che mi ha sempre fatto sganasciare dal ridere per quel finale in cui l’innamorato trascurato viene mandato fanculo dalla ragazza che stalkerizza chiamandola al telefono a tutte le ore. Davvero grezza e felice la voce megafonata di Rudy Marra che non fa nulla per nascondere la propria inflessione dialettale, soprattutto nei parlati, e tutta la canzone ha un sapore retrò perché suona come se uscisse da un vecchio grammofono, con un’intuizione anche in questo caso notevole.

Il quarto album, uscito nel 2007, si intitola “Sono un genio ma non lo dimostro” e contiene “Amore di contrabbando”, canzone ethno, e “Trompe l’oeil”, la canzone forse più impegnata dell’album ma anche la più controversa perché si presta a una molteplicità di interpretazioni. In pittura il trompe l’oeil è proprio quella particolare tecnica che serve a generare un’illusione del reale, per esempio dare una percezione degli ambienti più dilatati rispetto alla realtà, e infatti Rudy nel brano canta “facciamo finta, eh, facciamo finta”. “Il morso”, intercalata da alcuni versi tratti da una lettera di D’Annunzio, è una duplice dichiarazione d’amore indirizzata sia alla terra dell’Emilia Romagna che lo ha adottato, sia alla donna. “Mio fratello Theo” riporta al secondo amore di Rudy dopo la musica, cioè l’arte, in ispecie la pittura, protagonista anche del suo secondo romanzo “Le facce”(Zona Editore 2015).  La canzone è dedicata al grande Van Gogh che compare anche nella copertina del disco con le fattezze ritoccate dello stesso Rudy. Dopo “Quello di cui ho bisogno”, ascoltiamo “L’ombra”, canzone psichiatrica, dello sdoppiamento della personalità, incentrata sull’ambiguo rapporto fra un uomo e la propria ombra, macchia nera, cattiva coscienza, immagine distorta e violenta dell’amore, un po’ come ne “Il sosia” di Dostoevskij. Ad essa, il protagonista attribuisce il proprio misfatto, l’omicidio dell’amata. “Barricate” è per me la canzone più interessante dell’album e ricorda molto, per tema trattato e stile musicale, i fratelli Bennato. Canzone politica, molto cantautorale, sui rapporti fra Oriente e Occidente e su quello “scontro di civiltà” che negli ultimi anni ha animato un grande dibattito culturale. Bellissimo l’inserimento di frasi in dialetto salentino, rappate fra le strofe. “Sono un genio ma non lo dimostro” è un capolavoro di autoironia, a metà fra Rino Gaetano e Baccini, il cui protagonista è un inventore di cose inutili o già inventate. Il “genio” vagheggia di politica sociale secondo un utopistico progetto egualitario e anche di una forma di governo, in un certo modo opposta alla “Repubblica” di Platone, secondo il filone delle città ideali immaginate dai letterati, dalla Città di Dio di Sant’Agostino a Utopia di Tommaso Moro, dalla “Città felice” di Francesco Patrizi alla “Città del sole” di Campanella.  Poi sogna anche di “un romanzo colossale  a livello Dostoevskij”, ma si accorge che l’impegno sarebbe troppo lungo per costruire un capolavoro tipo “ I fratelli karamazov” o la tolstoiana “Guerra e pace” , e preferisce ripiegare sulla musica leggera che dà soddisfazioni più immediate, il che mi fa pensare a quell’esilarante gag con protagonisti Massimo Troisi e Pino Daniele in cui il comico e regista napoletano dice al cantautore di invidiarlo perché a lui bastano cinque minuti di canzone per raccontare una storia d’amore mentre per costruire un film di due ore occorrono molti più sforzi e sofferenze. “L’uomo mosca”, molto rock, rende omaggio nel titolo ad un famoso film del 1986, “The fly. La mosca” di David Cronemberg.  “Ognuno pensi per sé” è una marcetta molto divertente che chiude in bellezza un album che, nel complesso, è del tutto italiano ma suona anche molto world.

Negli ultimi anni Rudy ha portato in giro un progetto live intitolato “C’è da bruciare tutto” con un genere definito  “free punkluezz” ( un miscuglio di alternative rock, free jazz, blues) ed ha anche composto un cd che viene venduto ai concerti. Nonostante non pubblichi, cioè, l’artista continua a comporre e suonare perché far arte è una esigenza insopprimibile e la sua musica, così mi sembra di capire, va oltre quella sistematicità che imporrebbe un regolare percorso discografico, incuneandosi dappresso in percorsi tortuosi, poco battuti, seguendo il ritmo salutare dell’improvvisazione, della militanza, con l’osservare da vicino  la vita e coltivarne il pensiero. Probabilmente è contro il rischio dell’omologazione (lui, con quel suo universo prismatico di suoni e umori così meticciati), di una ieratica ripetizione di sé stesso, di una ripresa puntuale e costante che diventa rifacimento, che Rudy Marra ha deciso di non pubblicare più. Ma il suo canzoniere, così lontano da ogni pienezza oracolare, e così invece problematico, polisemico, vario, sospeso fra disincantato e moralistico, fra sentenzioso e grottesco, serio e disimpegnato, secondo me, va assolutamente riscoperto.

Paolo Vincenti, 15 settembre 2017