La città e il cambiamento
Lecce è candidata a divenire nel 2019 capitale europea della cultura.
Convinti della necessità di Reinventare Eutopia,
Spagine e il Magazzino di Poesia
interrogano i poeti sul tema “La città e il cambiamento”.
La prima riflessione è quella di Ilaria Seclì,
già pubblicata sulle pagine del domenicale del periodico
del Fondo Verri, il 30 marzo 2014.
di Ilaria Seclì
Se non sei felice, uomo, fai qualcosa. Lo so che non lo sei. Fai qualcosa. Non è più tempo di stare dietro gli schermi, è lì che si è consumata l’ultima ipotesi di incontro, con te stesso, con l’altro. Smagrito di silenzio e vuoto l’uomo deperisce, si anemica e inimica.
Smettila di rintracciare ed essere rintracciato, di rispondere sempre all’oggetto onnipotente e piccolo. Le stelle ti corteggiano e il cielo pure, e tu non capisci, non guardi. Sequestràti occhi e mento a un basso senza fondo che t’im-piglia l’anima, la vita, ti secca ogni ipotesi di fioritura, ossifica e opaca il vivido, il vivo, quel lucore agli occhi che dovresti pur conoscere.
Sei un animale e l’hai dimenticato, hai dimenticato anima e terra, sei orfano di cielo. Questa è la tua condanna. Sei orfano di cielo, di Creato. Laudati siete e siate, Creato e Creature.
Siate cose del creato. Cucite il vostro destino alle leggi cosmiche, ai fatti naturali, a ciò che vive nel persempre, al vivo che non muore. Non c’è altra felicità. Il resto è a stento. Il resto è infelicità, condanna, spreco, perdita, sottrazione, anemia, spegnimento.
“La natura che noi definiamo selvaggia è molto più sapiente della nostra esaltata ragione”, diceva Henry David Thoreau. (Ippocrate e Avicenna, Vis medicatrix naturae). E quel che è più vivo è più selvaggio. Datemi per amici e vicini uomini selvaggi, non addomesticati. La brutalità del selvaggio non è che un pallido fantasma della spaventosa ferocia che spinge gli uomini civili l’uno contro l’altro. Sempre Thoreau. Disobbedienza civile. Preghiera dello stare al mondo senza essere del mondo. Siate come i gigli dei campi. Non lavorano e non filano, eppure io vi dico che nemmeno Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. La domestica di Wordsworth rispose: “questa è la sua biblioteca, ma il suo studio è là fuori, oltre la porta”.
Ma qui, qui e ora, nelle città, si vuole l’uomo radicato ai soli soldi. Con l’origine e la destinazione tradite dalle fabbriche, dall’industria mortifera, dai supermercati-obitorio, dai diavoli a portata di palmo e impazziti polpastrelli, diavoli con password, esattori di tempo e di incontri incarnati.
Al contatto con la terra ci pensa solo sorella Morte. Almeno per chi mal tollera d’essere infilato nei buchi degli umani e preferisce la pioggia e il sole, sebbene da una qualche differita.
Orsù sindaci, orsù, in particolare, sindaci del Sud, abbiate a cuore la vita dei vostri cittadini. Abbiate a cuore la Vita. Abbiate a cuore la salute dei vostri cittadini. Orsù, sindaci, abbiate a cuore la felicità.
E la felicità è direttamente proporzionale alla presenza di alberi, piante, parchi. Direttamente proporzionale al Verde. Orsù, sindaci, la cultura ha senso se prima i piedi camminano scalzi su prati lontani dal cemento, se i bambini crescono correndo all’aperto e respirano aria buona. Buona.
I polmoni, sindaco, i polmoni. Al di là delle birre e delle sigarette che offre la città, al di là dei fumi, dei mille veleni, al di là dei concerti, delle mostre.
Al di là, sindaco, non c’è altro. Non c’è storia fuori dalla possibilità, di una madre, di portare il figlio al parco, che sia parco e non ciuffettini d’erba sbucanti da estese lastre di cemento. Nominare gli alberi, lontano dai rumori di città, lontano dai veleni. Nominarli. Alberi, verde, fiori. È l’unico antidoto, sindaci, l’unico. E non siate tirchi nell’ora. Chiusura e apertura dei parchi in stitiche considerazioni di prudenze e salvaguardia.
Su, sindaci, guardate gli uccelli del cielo: non seminano né mietono né raccolgono nei granai. Eppure il padre vostro celeste li nutre. Non valete forse più di loro?
Basta quindi, gomiti incarogniti l’un contro l’altro, per spartirsi i 30 denari di una cultura ufficiale ferma alla polvere dei centrini sugli altari o sulle lapidi, ferma alla festa in pompa magna, a quello strepito di banda per una qualche commemorazione. Disattenta al vivo e al fremente. Nostra madonna del pressappochismo, nostra madonna della superficialità. Nostro Signore Bodini all’ingresso della mostra, gamba alzata… Nemmeno la morte lo può consolare di tanta sciatteria. La serietà e la cura sono un obbligo, un dovere. Impegnamoci. Ce lo insegnano cittadini di altre realtà che costruiscono cultura, amano di un amore profondo e rigoroso la storia della propria terra, diffondono il messaggio di uomini che l’hanno camminata e resa illustre, e progettano insieme. Anche al di là dei finanziamenti di turno, dei guadagni, dei ricavi. Amore per la propria terra. Conoscenza. La cultura non si porge come una portata su una tavola male e frettolosamente imbandita. I piatti si preparano insieme, a cominciare dalla raccolta di origano e rosmarino nella campagna. A cominciare dalla salvia. Triste metafora. Ma i nostri animi goderecci e gastronomici gradiranno.
Mi sto spiegando? È difficile, abituati da sempre alla guerra tra poveri.
Ma possiamo migliorare, pian piano. Basta educarci al cielo, guardare in alto. I cittadini più virtuosi d’Italia sono gli stessi che camminano i sentieri di montagna, per ore, alla ricerca di un borgo. Conoscono le costellazioni e le nominano, gli alberi e gli animali. La natura ci rende più capaci e più eleganti, meno rozzi e egoisti, tutto qui. È suo l’insegnamento più grande, come quello della Memoria, leggi sacre e immutabili per il governo degli uomini e del cosmo. Suoi i suggerimenti per riformulare il mondo altrimenti perso. Persa la felicità.
L’attenzione e la cura generano accortezza. L’accortezza genera gentilezza. La gentilezza salverà il mondo.
Ilaria Seclì
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