Un corpo in cui la ferita parla
di Anna Rita Merico –
su “Soluzioni fisiologiche” di Luciano Pagano (Vydia Editore, 2020).
Scambi quotidiani sotto il segno di tracce. Tracce di pensieri gonfi. Tracce di pensieri al limite. Tracce di frammenti mescolati, scombinati e – di nuovo – riportati al significante.
Corpi essudati. Corpi in fuga su traiettorie buie e congelate pronte a dissolversi, a riannodarsi, a ripartire, a sparire definitivamente, a rientrare.
Ogni testo tratteggia una stanza, un luogo chiuso, un luogo di pura dissolvenza. Fotogrammi pastosi in cui il corpo si dice indicando una propria nuova cartografia: né pelle, né villi, né ossa. Una cartografia di allusioni feroci in un corpo che ha assorbito ogni grano di pensiero doppiandosi. Mente e corpo trasfigurati in una carne altra, carne imbevuta di inconsci diffusi.
Può un inconscio fuoriuscire dalla tana all’interno della quale abbiamo imparato a conoscerlo e divenire materia diffusa, sostanza nuova della carne, ritmo di tempo, schiusa di accenni?
Accade.
Accade ciò nei testi di Luciano Pagano.
Accade nei testi lì dove la rimozione, la fluidità ingessata dello scacco, il dolore frammentato perdono le loro antiche allocazioni e trasmigrano nell’ognidove di un punto limite. Un limite che è il punto dell’impossibilità del contenimento, il punto preciso della scissione, il punto esatto in cui l’impossibilità della parola tocca la propria vertigine non per morire ma per trasformarsi, ancora.
Cuciture e punti di sutura attaccano malamente i dentro ai fuori. Il gesto banale trova possibilità di dirsi ingrandendosi e restando fissato nello zoom di un attimo lungo. È una poesia dal ritmo visivo non scontato. È una poesia che bacia i sensi obbligandoli a slargarsi e ad aumentare nuove ricettività. È una poesia che riscrive il corpo. È un postmoderno carico di segni e rimandi ad un corpo esploso che, però, torna a dirsi accoccolandosi nel ritmo cinematografico di uno scorrere privo di scenografia.
È un corpo in cui la ferita parla obbligandoci ai suoi andirivieni di tempi accumulati, di tempi immobilizzati, di tempi grondanti memoria per gesti, troppo repentinamente, divenuti inusuali.
Nelle “Soluzioni fisiologiche” ciò che gravita, transitando, sono le memorie cellulari, le estromissioni dalle possibilità di amare, gli slabbramenti sul presente, le possibilità di una scrittura che pretende l’ennesima giravolta su se stessa per dirsi dalla soglia di un confine altro, diverso, nuovo, inaspettato, scandaloso.
Corpo autogenerato. Corpo che abita città ridotte a poche linee e spazi privi di riferimento. Unica forma di orientamento, nei versi di Luciano Pagano, è il gesto. Un gesto quotidiano, banale che, nel momento in cui si incista nel fotogramma che lo dice, si imbeve di una sorta di eternità sui generis. È una eternità immobile che ha il potere di ri-fondare gesto e corpo con un unico, assoluto movimento.
Il trascorrere del tempo si infrange ai margini di un possibile, nuovo, altro ritorno dei versi. Amore, disperazione, tristezza, pazzia, calore, olocausti… una gamma di venti sottili, talvolta tossici altre volte sottili e freschi, attraversano le spesse e variegate dimensioni emotive in cui l’accadimento crogiola immobile nutrendosi di sé, del solo fatto di essere accaduto, avvenuto, venuto a galla nello sguardo che lo scrive dandogli, in tal modo, essere e frangente di vita.
Eppure, nella perdita della vecchia forma, nulla parla di disperazione. Il verso pastoso e denso porta nel territorio della ricerca, nella stanza delle trasformazioni in cui la capacità di dire il presente diviene arte capace di registrare il mutamento. Registrarlo nell’attimo esatto in cui esso avviene.
Si dissolvono testi, riferimenti, luoghi, membrane, abitudini, suoni e, tutto, si ri-articola in una evanescenza colma di significati nuovi, di accenni.
Questi versi alludono all’ombra sugli scalini delle strade e delle piazze di Hiroshima e Nagasaki. Ombre di Soluzioni fisiologiche che gocciolano la morte e la possibile rinascita dal fondo del dolore consumato tutto, dopo la distruzione. L’ombra che dice corpo e sembianza dello smarrimento della contemporaneità e la caparbietà dell’umano che continua a dire di sé, cercando nuova fondazione, diversa direzione.
La bellezza di questi versi è nella loro lontananza dalla paura panica del vuoto. Sono versi che rimandano, sempre, ad un pieno di intenti e di possibilità. Sono versi che alludono ad una staffetta di significati in cui il già conosciuto si infrange cadendo non in vicoli ciechi ma in incroci. È la bellezza densa degli incroci da cui riparte la possibilità di dire, di dare senso profondo e altro al sentire.
Il gesto apparentemente banale, una volta fissato diviene centro di un diverso modo di rendere la metafisica lasciandola abitare tra noi mentre ci impone la sua vertigine del presente.
La madre e la figlia che si smezzano una chesterfield.
Noi che il giorno dopo torneremo a casa senza dirci una parola per tutta la strada
Tu che quando tornammo a casa non eri più vergine
Tra le pagine sfila una quotidianità portata al suo punto limite. Una quotidianità dalla quale sembra essere evaporato pensiero e successione temporale. Eppure, in quella qualità quotidiana, normale, del gesto che – insieme – si fissa ed evapora trova genesi l’opposto. Trova genesi la cura che dice
la sclera che mostra come stanno le cose lasciandole tornare al punto di partenza, mobilitandole, consentendo che restino e che attendano, che fluidifichino e che resistano. È una fisica altra della materia. Fisica del molle. Fisica del grumo che implode su sé, fisica della resa imprevista, fisica del frammento impolverato, fisica dell’ombra spessa e denudata. Nuovo punto sorgivo della parola e del senso poetico.
Da dove si origina questa poetica? Poetica che conosce il gesto violento dell’uccisione, della sparizione, dell’evaporazione, della trasparenza. È poetica che conosce una materia ibridata seduta ai confini del dicibile. È poetica che allude alla dimensione diafana di un essere percolante tra gli interstizi della parola rinnovandola ma, anche, stringendola a se stessa. Eppure, non c’è mai affanno, c’è sempre linea di orizzonte, c’è sempre angolo da svoltare. C’è notte viva. C’è onda che non si arrende. C’è umanità spaesata ma attaccata a la poesia (che) sarà ancora il genere di scambio minore che precede un accoppiamento quello scambio minore, interstiziale che nutre il dentro d’ogni capillare attraverso e con Fisiologiche Soluzioni.
Anna Rita Merico
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