Usme del Paradiso di Andrea Cramarossa
di Marcello Buttazzo –
E ti prendesti cura
dell’aria in quanto
fosti foglia
albero
sotto la protervia del cielo
ricamavi
storie di conforto
da foglia a foglia
il tuo villaggio
impigliato nell’acqua
ascoltava
perso
sulla sillaba appuntita
delle tue narici.
Andrea Cramarossa, rinomato attore, regista, poeta, fondatore del “Teatro delle Bambole”, ha pubblicato di recente (novembre 2022) la seconda edizione del libro di versi “Usme del paradiso” (Spagine, Collana di Poesia). Leggere le poesie di Cramarossa è come compiere lentamente un viaggio quasi ipnotico e bello in un mondo altro. È come entrare in contatto simbiotico con una realtà quasi di fiaba, laddove il mondo organico, inorganico, quello minuscolo, si danno la mano. Nella nota finale del libro, l’autore sostiene di aver sognato di essere un animale selvatico, un animale dal pelo ispido, fulvo, “un animale dagli occhi piccoli che non rinuncerebbe mai ad annusare quelle tracce olfattive che conducono al paradiso”. “Usma” è la traccia odorosa lasciata dalla bestia selvatica. L’uomo contemporaneo ha perso ragione e splendore, ha smarrito sovente questa suprema capacità di possedere un super olfatto, inadatto a coltivare quella luce primigenia dei nostri antichi antenati. Ma, come scrive nella prefazione Italo Interesse, “esiste però una gamma olfattiva nella quale l’uomo moderno, purché curioso e predisposto, non può dirsi escluso. Parliamo di un percepire in cui convergono anche gli altri quattro sensi alla composizione di un modus conoscendi “altro” e superiore”. E scorre come un fiume “Usme del paradiso, come un alto esercizio d’esperanto letterario, dove fiammeggiano l’acqua lustrale delle sorgenti, le piccole bocche con memoria di salice e predicati amaranto in corteccia morbida, il lucore limaccioso dell’amplesso tra marmo e calendula, il discorso del fiume, lo smarrimento del volo delle rondini. Ed ancora, le insistenti conifere, l’adagio della cicala, il fiore incompreso. Nella raccolta di poesie, campeggia una Natura potente, illesa, che evoca, che parla. “E fosti pioggia/ e anche vento/fosti aria/ là dove la diaspora/si compiva/”, scrive Cramarossa. Un buon odore di selvaggio, come nel nostro Salvatore Toma. È vero, l’uomo moderno ha dimenticato l’Eden agognato. L’uomo tecnologico, vittima del suo smodato riduzionismo, della sua involuzione culturale, ha perso il contatto diretto con la mansione cristallina dell’esistente: “E fosti/rigorosamente ricamato/nella forma assoggettato/all’apparenza languida/ del sapere: /scimmia/ con la corona in testa/ scimmia/ di un imperituro deserto/”. “Usme del paradiso” si legge con piacere e incanta davvero per il suo lessico ricercato e, al contempo, leggiadro, soave. Anche l’escamotage narrativo e lirico è veramente originale. La parola si fa fiore, cielo, foglia, libellula, albero. “Usme del paradiso” è un canto intimo e struggente alla bellezza del Creato, che testimonia la ricerca d’un grande poeta genuino.
In raschi e cappi
di primaverili impiccagioni
sto diventando trasparente
i denti
sono trasparenti a furia
di allattare
una ferita da basto
che non appartiene
alla mia famiglia.
Sono vecchio
sembro vecchio.
Mi guardano
io sorrido
ed è come se non ci fossi
come se fossi sbiadito
tra catene di orfani buoni
impagliati
sulle credenze celesti
di coralli crepuscolari.
Marcello Buttazzo
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