Nell’avventura poetica di Alessandra Peluso
di Vito Antonio Conte –
Non dirò che Alessandra Peluso è laureata in filosofia, dottoressa di ricerca in scienze bioetico-giuridiche, né ch’è saggista e che ha pubblicato diverse raccolte di poesia: invero, son tutte notazioni scontate che dicono (all’un tempo) tutto e niente. E non m’è mai piaciuto essere scontato.
Neppure coglierò il rischio di scrivere della sua poesia stante l’ineludibile verità che critico non sono né mai lo sono stato. Mi è sempre piaciuto leggere (in particolare poesia) e, a modo mio, scrivere di quel che ho letto e, soprattutto, quel che la lettura ha evocato in me e (qualche volta) quel che (in fine) m’ha lasciato in dono, con tutte le conseguenze del caso. Dell’ultima pubblicazione poetica di Alessandra Peluso, AZZARDI DELL’IO, quindi, annoterò qualche pensiero in ordine sparso: già il titolo evoca un’avventura temeraria, una situazione pericolosa, un grave rischio, un azzardo appunto. Se poi l’azzardo coinvolge l’Io, comprenderete bene che qualsiasi cosa possa dire s’una siffatta silloge costituisce un doppio azzardo. Invero, è noto che l’Io, in psicologia, rappresenta una struttura psichica – organizzata e relativamente stabile – deputata al contatto e ai rapporti con la realtà, sia interna che esterna. L’Io prepara e gestisce gli stimoli ambientali, le relazioni oggettuali ed è il principale mediatore della consapevolezza. Si può immaginare l’Io come il gestore centrale di tutte le attività psichiche, che rivolge verso sé stesso e verso l’ambiente esterno generando, appunto, la consapevolezza propria e della realtà.
In filosofia, invece, l’Io è il principio della soggettività, attività di pensiero alla quale è stato spesso attribuito un valore particolare poiché è il fulcro da cui nasce la riflessione filosofica stessa. Il concetto di Io corrisponde (infatti) al momento in cui pensante e pensato sono presenti al pensiero come la medesima realtà: nel momento in cui mi trovo a riflettere su di me, soggetto e oggetto vengono cioè a coincidere e non hanno più una connotazione che li differenzia (Wikipedia).
È quell’unità della quale infra dirò qualcosa nell’azzardo che sto correndo (come fosse, in fondo, un gioco) occupandomi di liberare parole su parole. D’altra parte “L’uomo è veramente uomo soltanto quando gioca” (Friedrich Schiller)e, poi,“Ognuno è incline a credere in ciò che desidera, da un biglietto della lotteria ad un passaporto per il paradiso” (George Byron).
Ovvio che non posso trascurare il fatto che (in questo caso) l’Io è soprattutto quello lirico, ossia quella sorta di trasposizione letteraria del poeta che, come tale, corrisponde (anche se non necessariamente) alla persona (in tutte le sue manifestazioni e espressioni).
Orbene, Alessandra Peluso, nella sua ultima silloge poetica, mette immediatamente le cose in chiaro: la dedica è per due donne, due poete: Patrizia Cavalli e Patrizia Valduga. Personalmente ho inteso intenderla in senso estensivo e, dunque, per me è un omaggio anche a se stessa e a tutte le donne. Sin dal primo componimento, poi, emerge il carattere viscerale della sua scrittura nel senso di profondo, passionale, quasi uterino. I versi d’apertura sono una sorta di dichiarazione, altrettanto chiara, del contenuto dell’intero testo poetico: parole forti, umori nauseanti, stati d’animo densi di delusione e malinconia, atmosfere pervase dall’umana ipocrisia dove resta poco spazio per la purezza e la bellezza dei sentimenti bambini. Dove la corsa verso il niente annienta il tempo dei rapporti autentici. Dove i sogni son costretti a cedere all’immediata apparenza, quella dell’arrivismo, dell’egoismo e del conformismo. Dove il merito ha sempre un maledetto prezzo. Dove l’Ego lungi dall’essere espressione dell’interiorità è prevalentemente arroganza e disprezzo per l’altro.
Emblematico di questa triste situazione è il concetto insito ne LA STIMMUNG (che rimanda all’amato – dall’Autrice – Georg Simmel). Parola pressoché intraducibile che possiede infiniti rimandi all’interiorità e all’esteriorità, al corpo e allo spirito, a ciò ch’è visibile e a quel ch’è nell’anima. Simmel, per la mia limitatissima conoscenza (diversamente da quella profonda di Alessandra Peluso) ed esemplificando oltremodo, ha tentato di giungere all’unità di quei due mondi. Simmel ha reso concettualmente questo tentativo in molte sue opere ma per me è riassunto nell’espressione: “nella forma del volto l’anima si esprime nel modo più chiaro”, ché, invero, come ha notato qualcuno, “il volto, nella sua unità e simmetria, è manifestazione visibile e simbolica di quella forza unificante e sintetica che caratterizza l’attività spirituale in generale”. Ora, è evidente al lettore (com’io sono) che quest’ultimo lavoro poetico di Alessandra Peluso è una denuncia del fallimento dei migliori tentativi (compreso quello filosofico e, in particolare quello testé malamente cennato dal sottoscritto) di dare unità al pensiero e all’azione umana. E, in ultima analisi, dell’uomo moderno che ignorando il passato l’ha annichilito invece di trarne insegnamento, preferendo elevare a valore esempi modaioli e stili di vita che lo vedono sempre più ripiegato su se stesso e su interessi personali invece che teso alla cura e alla realizzazione concreta d’un ideale comune capace di perseguire (com’ultimo obiettivo) per l’intero genere umano pace senza croce.
La poesia di Alessandra Peluso è espressione di questa insuperabile divisione tra corpo e anima, di questa straordinaria scissione tra desiderio soggettivo e armonia oggettiva, di questa invalicabile dicotomia tra autenticità e finzione. Alessandra Peluso è perennemente in bilico tra “esserci, non esserci / andare, restare”, non è pessimista né ottimista, convinta che “non si può scrivere di amore / se poi si pratica orrore” e, nonostante tutti i suoi “tacete” invocati a tutti quelli che “insistono a far rumore” nel mentre servirebbe una bella pausa di silenzio, quasi sconfitta ammette “meglio andare a letto / che cercare l’uno”. Sembrerebbe una resa di fronte alle ombre che l’assillano, incapaci d’amore, foriere di vuoto, morte e muri invalicabili. Ma il poeta desidera ancora “sbornie di vita” e lo urla con tutta la rabbia che ha dentro, ché lo sa d’esser “condannata a essere umana” e che “c’è sempre qualcuno che ti fotte” ma ciò non le impedisce di continuare a nutrirsi di fantasia, immaginazione, libertà per “vivere un amore / d’adolescenza / puro d’essenza di mughetto / autentico senza armi né strategie”.
A ben vedere Alessandra Peluso canta il mal de vivre del nostro secolo (indubbiamente diverso dal mal du siècle dei pre-romantici e dei romantici, ma) condito dagli stessi ingredienti: quello spleen che per Baudelaire era cupa malinconia (eccesso di bile) dell’essere umano emarginato, alienato, tormentato nella metropoli (folla), nella dispersiva crudele società cannibale che importava noia, disgusto e angoscia esistenziale. Oggi (nel nostro presente liquido) quel male è diventato impotente rifiuto della contemporanea società egotica. Quello del poeta è (per dirla con C. Noica) un esilio in terra sentenziato dall’ipertrofia dell’Io. Se in SUBBUGLIO (precedente raccolta poetica dell’Autrice) vi era una donna in fermento in cerca di quiete, qui l’azzardo cozza contro perfino quel che sta oltre l’umano se è vero, com’è vero, che “La Natura sconquassa”. Al punto che resta soltanto l’arma della fede per continuare a fare la propria parte e Alessandra Peluso (lo afferma senza possibilità d’equivoco) HA FEDE! Crede fermamente che questo inferno finirà e lo comunica con i versi (tutti rigorosamente senza titolo) indicati col n. LXXXII e che fanno pensare a quelli dell’Inferno dantesco: “Pensosi / a rimirar fummo / in un agguato / sorpresi / ad abbracciar il deserto.”
Sono questi tra i versi che preferisco e pur mantenendo fede alla mia dichiarazione di evitare commenti critici (melius: da critico) non posso esimermi dal notare come la metafora della poeta, qui, sintetizzi l’intera sua opera, quanto meno secondo la mia lettura: infatti, come sopra ho evidenziato, c’è un evidente contrasto tra l’inutile, fastidioso, ferale frastuono della società contemporanea e il desiderio di silenzio. Così la poesia diventa il luogo della parola che sorge dal suo silenzio sino ad abbracciar il deserto (penso al Nulla di Ungaretti…) ch’è il luogo più vicino all’esperienza della morte e dunque alla trasformazione mistica e alla vicinanza con Dio (chiunque esso sia). Ma il deserto è anche il luogo dell’essenzialità e in esso penso che Alessandra Peluso aneli al rifiuto d’ogni orpello e artificio in favore della sostanza delle cose della vita. Di quelle cose della vita cantate con disperata passione.
E, a questo punto, per dare un senso al mio sproloquio, voglio credere che il canto (d’anima amante, parafrasando il titolo della silloge d’esordio dell’Autrice) sia soltanto un estremo canto d’amore, come l’azzardo di una delle più belle canzoni di Paolo Conte:
C’era tra noi un gioco d’azzardo
Ma niente ormai nel lungo sguardo
Spiega qualcosa, forse soltanto
Certe parole sembrano pianto
Sono salate, sanno di mare
Chissà tra noi, si trattava d’amore
Ma non parlo di te, io parlo d’altro
Il gioco era mio, lucido e scaltro
Io parlo di me, di me che ho goduto
Di me che ho amato e che ho perduto
E trovo niente da dire o da fare
Però tra noi si trattava d’amore
C’era tra noi un gioco d’azzardo
Gioco di vita, duro e bugiardo
Perché volersi e desiderarsi
Facendo finta di essersi persi
Adesso è tardi e dico soltanto
Che si trattava d’amore, e non sai quanto
Lecce, un giorno di novembre 2024
Vito Antonio Conte
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