Le Parole
di Gianni Ferraris –
“Non conosco nulla al mondo che abbia tanto potere quanto la parola.
A volte ne scrivo una, e la guardo, fino a quando non comincia a splendere”
(Emily Dickinson)
Le parole possono essere dure, leggere, seducenti, ammaliatrici, vili, pesanti.
A volte volano leggere, arrivano da fuori quando si è assorti in pensieri altri, fatti anch’essi di parole. Frasi, poesie, romanzi, l’amore detto, cantato, urlato. Le parole del silenzio, quelle non dette ma che turbinano in testa, le parole scordate e quelle da dimenticare. Libri, migliaia di parole su pagine, avvolgono leggere e leggiadre, ti portano fuori, in un mondo forse non tuo, ma solo tuo in quel momento. E quando il libro termina sei triste perché ti mancheranno quelle parole, allora ne cercherai altre, e poi altre ancora. Così scrivi impetuoso come un torrente, e, come dice Emily, le guardi, a volte te ne innamori, altre volte ti chiedi “ma le ho scritte io?” Non ti capaciti, perché il pensiero libero si è scatenato fra un muretto a secco e uno stradello di campagna, fra un sorriso e una nostalgica malinconia, fra mare e cielo. Allora cerchi altre parole, anzi, loro trovano te nel loro svolazzare come farfalle. E’ il momento in cui si sciolgono passando dal cuore alla tastiera senza volteggiare nel “logico/illogico”, rileggerai poi, dopo, a fine corsa. E forse cambierai qualcosa, poco però.
E le parole, migliaia di parole mai dette, che rimangono lì ferme e che, quando ricordi, rimpiangi di averle solo pensate senza farle uscire fuori.
Sguardi che si incrociano per strada, casualmente, e dietro lo sguardo un fiume di parole che si vorrebbero dire solo perché si intravede empatia fra sconosciuti, lunghe passeggiate in riva al mare, in due, in silenzio, senza parlare, perché le parole stanno dentro e non sanno uscire ma ci sono, urlano, sibilano, si incrociano, volteggiano. E poi la pagina bianca, il dramma di chi vuole scrivere e non sa iniziare perché quel bianco da riempire spaventa. Un giorno un bravissimo pittore di Gavi Ligure mi disse che lui no, non faceva grandi formati “perché la tela bianca grande mi spaventa e mi blocca”. Lo stesso accade per chi scrive, la maledetta pagina bianca che poi come per magia si riempie di simboli, lettere, punti, virgole, fluisce, si dipana e alla fine stai lì, la guardi ed è quello il momento in cui “la parola comincia a splendere”.
Imbonitori, affabulatori, guappi, poeti, commercianti di vacche, scrittori raffinati… Tutti urlano e decantano parole che planano leggere o pesanti, pensate, pesate, ripensate. A volte inutili.
Parole di amanti e parole di governanti, parole di bimbi che non misurano le parole ma le usano così come le hanno imparate e vogliono comprendere. Le usano così come le hanno ascoltate dai “grandi”, senza necessariamente comprenderne il significato, ma sapendo che hanno un senso. Così l’immagine del “sole rotto” da una nube che sembra tagliarlo in due, detto da un bimbo può fare sorridere, ripensato può essere poesia pura, alta. Il senso delle cose, delle parole, dei simboli.
Parole nuove mai udite, neologismi li chiamano, quelli che inventano i ragazzi e che poi diventano quotidiano, comuni, ovvie e scontate. Parole antiche passate di moda ma che improvvisamente ti trovi davanti e ne scopri la bellezza, la meraviglia.
Parole che si illuminano… Appunto.
Gianni Ferraris – 16 settembre 2017
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