di Marcello Buttazzo –

Dovunque tu sia, ricorda che la rosa non ha perché: essa sboccia, cresce, fa effluvi di sé nei tormentosi e gai giardini della passione. La rosa piccola e rossa non s’interroga sul perché della sua essenza odorosa. Rosa è l’amore di gioia e spine, l’amore dei crepuscoli screziati d’un ardore di fuoco. Rosà è la beltà del cielo lapislazzulo, è il profumo delle notti custodi dei sogni. Rosa è questa vita che al baluginare dell’aurora ricomincia l’eterna corsa senza chiedersi perché. Cosa è il fiore del primo amore se non una rosa fanciulla, che furoreggia di continuo nei giardini illesi dell’anima! Il fiore del primo amore è ricordanza, viva rimembranza che non conosce straniamento, perché la memoria è un esercizio costante. La memoria è etica di comportamento. È quel che resta del tempo. Quel che resta e non passa. Il male grossolano e maldestro è la dimenticanza, il voler fare precipitare in un inconsistente pozzo d’oblio ciò che è stato. E che ha rappresentato una parte significativa della nostra storia. Il fiore del primo amore navigava nei mari del Sud, solcava lo spazio e il tempo, lambiva le mani. E i baci innocenti e i candidi fervori erano lampi di giovinezza, momenti benedetti di lascivia, fenomeni evidenti d’ebrietà. Il primo amore, anche se svanisce e vede depotenziare la sua valenza d’essenza, rimane nelle ossa, perché la matrice di sentimento, di trasporto, di attese della prima giovinezza non può mai precipitare in un inverecondo scantinato di dimenticanza. Il primo amore sopravvive all’incedere del giorno e agli insulti costanti della quotidianità. Rimane qualcosa di intatto al fluire ineludibile. Quel luglio 1990, Santa Maria al Bagno era uno specchio d’acqua adamantina. Trascorrevo in una casetta in affitto con i miei familiari le vacanze estive. Arrivò lei, la piccola musa. Io avevo 25 anni, lei solo 16. Ti ho trovata che eri bambina. Non ti ho cercato. Sei arrivata da sola, piccola, da inondare, coi tuoi occhi verdi, il cielo. Coi tuoi bei pensieri di ragazza studiosa e giudiziosa davi scacco alla mediocrità del pensiero dominante. T’ho trovata, per caso, che eri bambina, coi tuoi occhi d’un verde dell’anima, dove allogavano gli angeli. I tuoi occhi, che erano bellezza, gioia, tormento, li ho portati per tanti anni dentro. Oggi, non rammento più il colore. Oggi, i tuoi occhi sono quelli che sono: trasfigurazione, rappresentazione fantasmagorica. Non riesco più a osservare le tue foto, che ancora conservo nei miei scrigni riposti. Non riesco più a guardarti negli occhi, perché il mio verde ideale è ora una virente foresta di silvana voluttà, che rincorro, come un bimbo, quasi fosse una imprendibile chimera, una smarrita utopia. Il primo amore della giovinezza è libero come il vento, percorre le sue strade, traversa i suoi cammini. E lascia nello spirito un sapore di menta. Menta d’estate. La rosa fanciulla dell’amore, che scompagina le ovvietà e infuoca il sole, rimane il segreto da vivere. In un momento da far fiorire. Da far sfiorire. Mi vengono in mente i versi di Dino Campana:

In un momento
Sono sfiorite le rose
I petali caduti
Perché io non potevo dimenticare le rose
Le cercavamo insieme
Abbiamo trovato delle rose
Erano le sue rose erano le mie rose
Questo viaggio chiamavamo amore
Col nostro sangue e colle nostre lagrime facevamo le rose
Che brillavano un momento al sole del mattino
Le abbiamo sfiorite sotto il sole tra i rovi
Le rose che non erano le nostre rose
Le mie rose le sue rose

P.S. E così dimenticammo le rose.

Marcello Buttazzo