Su: Marcello Buttazzo, Fra le pieghe del rosso, Quaderni del Bardo ed., 2022

di Anna Rita Merico

Nelle liriche di Marcello Buttazzo ciò che viene cantato è questo spazio in cui la mancanza si fa metamorfosi e diviene altro. Diviene filo tenace che tiene dentro l’esistenza. Nei versi di Marcello i volti si dileguano, tornano, si tingono di memoria, sfilano, s’abissano, scrutano, attendono, sentono, si ergono a nascita altra. I volti, insieme alle parole che li cantano, non nascono alla realtà data, sono volti che trasmigrano nella realtà poetica mostrando nuova pelle, altro respiro.

Sono volti-corpo che divengono mondi da godere per pochi, feroci attimi prima che la fame dell’anima li sottragga alla vista.

Non è finzione,
l’amore. E’ gioco di spade,
salita furiosa
caduta rovinosa.
L’amore
vertigine
stratagemma, trasognato volo.
Il violino armonico
ieri s’era rotto.
Oggi l’ho riaccordato
sulle note del tuo cuore.
Il tuo cuore,
da divorare avidamente.
L’amore,
canestro di stupefazione.
Tu conosci l’amore,
perché sai dell’attimo
dell’infinito, del tempo.[1]

Il rosso, metafora potente della divorazione mai sazia.

L’amore che colma è amore vorace, e’ amore dell’attimo. Il rito dell’amore, rito di apparizione e sparizione è il rito che consente, all’amore stesso, di esistere, poi, in eterno. Nel rito dell’apparizione fugace e dell’irrimediabile sparizione, è posta la verità d’amore ossia il suo poter sgusciare nel tempo della memoria lì dove, libero da ogni legame, potrà essere cantato, ricordato, svelato, amato.

Il tempo delle liriche di questa silloge è il tempo del gesto minimo, il gesto che è capace di svelare mondo, di renderlo infinito. E’ fenicottero in volo, è alito d’alba, è esitante pioggerella, è tremore di foglie, è gemma preziosa… dietro ad ogni angolo s’annida ciò che porta meraviglia di Vita svelando incanto e sorgente di desiderio. Talvolta il vivente s’intreccia in fattezze di sogno che moltiplicano le connessioni tra realtà e poesia. Marcello, all’interno del gesto poetico che è la sua scrittura, mostra incroci capaci di indicare un regno sospeso nel quale la moltiplicazione di immagini definisce mondi altri: sono i mondi della sua spiritualità collocata tra universi di confine. Ciò che al Poeta interessa è il battito potente della vita, dell’esistere, del dimorare.

“…
I pesci d’oro
non hanno branchie lamellate
ma piccoli polmoni di bambini.
Bambini che giocano
corrono cadono si rialzano
nei prati di fiori giallini.
Se tu venissi di notte,
la notte raminga
a raccogliere
nel pozzo del desiderio
con una reticella
lembi di pallida luna,
vedresti il mio amore
rutilante di vita.
…” [2]

L’anima è campo di battaglia, è tensione, è scontro, è morso, è taglio furioso, è desiderio di riparazione, è incertezza, è smarrimento, è irresolutezza eppure è unico luogo possibile. E’ luogo dell’agire e del sentire poetico e, in quanto tale, è luogo dell’ardito che rende l’esistenza possibile. La donna nella sua realtà e possibilità svanisce continuamente in soffi evanescenti ma, di lei, anche l’inafferrabilità parla, si fa corpo, trasuda realtà poetica. Struggente la dimensione dell’attesa che diviene nerbo centrale e dente di ruota intorno cui lasciar dipanare lo scorrere del tempo: tempo della scrittura, tempo dell’intreccio, tempo dell’intento.

Dall’amore di cui nutrirsi con gesto infinito, sgorga la possibilità di saper fronteggiare lo scempio cui la distruzione della natura ci ha abituati. Al desiderio del volto sempre atteso si contrappone la consapevolezza del male creato e reiterato dall’uomo nei confronti del pianeta.  La terra è pervasa anch’essa dalla memoria: è memoria della fatica in essa fatta, è memoria di dna che ha forgiato caratteri e umanità, è memoria di un passato che, nel lavoro agricolo, ha trovato identità. Anche dinanzi alla terra compare il sogno che sovraccarica sommergendo e lasciando che il corpo si dica nella spiritualità di inusitate bellezze. La fame d’amore è fame di impossibilità di ritorno ad una purezza che, comunque, viene dichiarata come luogo alle spalle.

“…
Nessun chiodo
mi trafiggerà,
perché mi alimento
nonostante tutto
alla sorgente del tuo bene.
…” [3]

L’Autore si perde tra i colori e le sfumature di un cielo, di un tramonto, si accoccola nel possibile delle pieghe della Natura a cercare riparo da un’umanità poco benigna nel suo ringraziare la Terra. Il Suo appuntamento con il luogo sfuma continuamente tra volti e virgole di paesaggi metafisici in cui:

“…
e m’azzurrerai,
orizzonte ultimo
definitivo,
il più vero”. [4]

Alberga su tutto una dimensione di mai toccata innocenza, di inviolato cammino, di biancore del pensiero che rende bene il luogo ultimo nel quale i versi sono adagiati. Il luogo che accoglie e tiene i versi di Marcello sono le impalcature di un’innocenza mai toccata dalla realtà, sono le impalcature di una sospensione che rendono magica la rete su cui le parole dicono e nascondono, indicano e fuggono. I versi di Marcello Buttazzo sono distesi in un preciso luogo liminare in cui fiorisce la consapevolezza che la realtà cui si anela non sarà mai raggiungibile, allora, la poesia empie quello spazio assumendosi il compito di ridare dignità all’esistenza.

La quotidianità combatte con un’ansia che “trafigge i pensieri”5: è quotidianità ritmata da gesti conosciuti e ostacoli che da essa allontanano. Talvolta l’Autore attende una vicinanza alla Vita, talaltra l’ Autore vede bordeggiare la Vita stessa all’interno di ciò che lo circonda mentre, altre volte –ancora- s’abbandona ad uno sguardo che è esterno alla Vita, uno sguardo che lo vede dolorante spettatore di un flusso che accade e dinanzi al quale avviene la resa, il tremore, l’ineludibile ma, anche, il desiderio d’essere, comunque.

E’ una poesia sussurrata. E’ una poesia che svela e nasconde. E’ una poesia che ha il sapore della resistenza morbida all’avversità. E’ poesia che conosce lo scacco e la metamorfosi, la morte e la rinascita. E’ poesia della tenacia che ripete i passi di ciò che tiene sull’orlo della desolazione per poterli superare e tornare a scandire i ritmi della speranza dell’esser-ci.

“…
Cosa s’aduna
su questa terra nera
di sconfitte millenarie?
Un canto”. [6]

Il continuo rimando al tempo futuro rende irreale ogni desiderio caricandolo di possibilità e di colmo augurio pur sapendo, al contempo, dell’impossibilità nominata della sua stessa realizzazione. Eppure, forte, irrompe il presente come lacerazione, il presente come urlo di mai avvenuta resa:

“Guardiamoci ripetutamente
negli occhi:
c’è sempre una cadenza giusta
per donarsi amore”. [7]

La raccolta inizia e termina in cerchio concluso sul desiderio d’amore come unico nutrimento capace di dissetare le seti dell’anima, le arsure della realtà, gli inciampi che l’impossibile tesse per ognuno di noi. Dall’inizio al termine del testo, ciò che si annida nelle pieghe del rosso è la possibilità, l’unica, di riscatto che la poesia offre alla Vita rendendola degna di essere vissuta.

1] Marcello Buttazzo, Fra le pieghe del rosso, Ed. Quaderni del Bardo, 2022. Pg 84
2] Ivi pg.18
3] Ivi pg.53
4] Ivi pg.52
5] Ivi pg.20
6] Ivi pg.43
7] Ivi pg.61