di Marcello Buttazzo –

Tutti abbiamo dentro un canto intimo. La voce interiore, che sussurra parole. E ci mostra l’altra faccia della luna. Tutti abbiamo un canto dentro come una sommessa preghiera, da esperire nelle notti perse, insonni, quando nel pozzo dei desideri andiamo a pescare con una reticella i baci mai dati. Tutti abbiamo un madrigale d’amore da donare a donne amate, a persone mai conosciute. Tutti abbiamo un tempo interiore, che scandisce momenti d’anima, da coccolare, da vezzeggiare. Venti anni fa, nel 2004, lo storico ed editore Vittorio Zacchino, per la collana “I Minimi”, pubblicò un mio libriccino dal titolo “Canto intimo”. Anch’io avevo una serie di turbolenze, di ricordanze, di pensamenti, da far diventare carne vibratile e spirituale ed inchiostro. Anch’io avevo innumerevoli motivi per mettere il mio vivere sotto osservazione e per mostrami nudo, come la terra nuda. L’inizio del secolo era stato uno spartiacque. Nel 2001, Claudia, con la quale avevo condiviso 11 anni della mia giovinezza, aveva deciso di andare via lontano e fuggire da me. In quel 2004, mi pareva di vivere in una sorta di stagnazione del pensiero, in una stasi della coscienza. In alternate fasi di alterazioni e spostamenti d’un equilibrio umorale. Grazie alla mia straordinaria psicoterapeuta avevo superato momenti critici, avevo imparato a sbrigliare ingarbugliate matasse, ad analizzare e ad attraversare il disagio. La mia psicoterapeuta mi insegnò ad entrare e ad uscire dalla ferita, mi fece amare le piccole cose quotidiane, mi fece scorgere ed apprezzare la necessità di “sporcarmi” le mani con la materia. Nei primi giorni del maggio 2004, incontrai Luisa, una bella ed interessante ragazza, che nella Corriera che da Lequile porta a Lecce mi rivolse la parola, dialogando con me. Da quei primi giorni di maggio 2004, ho gustato nuovamente la vita. I miei fantasmi, fiammelle eternamente accese nella mente, si placarono, momentaneamente. Luisa mi ripeteva che “i fantasmi della vita sono quelli che ci rincorrono, ma che non si fanno rincorrere”. I miei innumerevoli fantasmi, spaventati da Luisa, avevano il buon senso di tacere. Da quei primi giorni di maggio, dopo mesi di inerzia, ripresi a leggere, a scrivere, ad ordinare alcuni miei vecchi appunti. Grazie anche a Luisa, ai suoi teneri incoraggiamenti, alla sua beltà di ventenne, ai suoi splendidi occhioni, la morsa ferrea della nera depressione allentò la sua implacabile morsa. Mettevo nello sgabuzzino dei pensieri i tetri fantasmi. Rammemoro ora giorni di maggio del 2004. Seduto, a Lecce, ad un tavolo di caffè. Di fronte a me, Luisa. La radio suonava canzoni del cantar leggero. Renato Zero cantava: “Come mi vorresti?”. E come ci vorremmo? Come vorremmo che fossero gli altri? Forse, non sappiamo ancora pienamente come desideriamo essere noi. Scandagliare a fondo in profondità, per carpire l’intrinsecità di noi stessi? Mica male. Luisa la conobbi per caso sulla Corriera. Ne apprezzai subito il viso, l’espressione vivace, gli occhioni furbetti. La generosità, la contenuta intraprendenza. Luisa era innamorata della vita e delle piccole e buone cose quotidiane. Luisa era bella, i ragazzi la guardavano per strada. Era studiosa, divorava libri, suscitava la mia attenzione. Luisa, fascia nera alla testa, collana con un lupetto che simboleggiava lo spirito libero, maglietta nera, jeans chiari. Quel maggio del 2004, il mio canto intimo era ancora monocorde, sintonizzato sulle frequenze di Claudia fuggitiva. Avevo sempre Claudia nei pensieri. Ma una sera, a Copertino, presso la Cooperativa Gandhi, vidi vorticose danze indiane. Colori, maglie d’arancio, il rosa, l’indaco, il violetto, tutta un’iride di passione. Vidi ragazze e ragazzi giovani, i cavalli scalpitanti di Guevara, intenso rosso basco, bianco di lino. I cavalli vivaci del Che, vidi, e il Mahatma, la Grande Anima, soffiare e sussurrare amore alle nostre anime.

Marcello Buttazzo