di Anna Rita Merico

Massimiliano Bardotti
La terra e la radice
Puntoacapo ed. 2021, pg 118

“Scrisse un giorno Anna: Penso a poemi pieni di allegria
Sulla vita precaria eppure bella.
E penso a lei, mentre scriveva, e spero quei poemi li spero per noi.”[1]

Parola poetica come chiave per accesso alla spiritualità. E’ spiritualità agita e condivisa come percorso di vita in contesto relazionale e di ricerca. E’ spiritualità in cerca della voce, del senso, della Presenza vissuta. Vissuta tanto da sentirsi mezzo e strumento della Poesia sentita come respiro e libertà mai trovata una volta per tutte ma campo da arare lungo l’intera esistenza.

La tensione all’accoglienza dell’altro, l’apertura al sentire della spiritualità che scava nell’animo sono tratti caratterizzanti l’essere in Poesia di Massimiliano Bardotti e sono, soprattutto, misure silenziose di origine della parola. E’ parola che si nutre di continua ricerca di senso. E’ parola che cerca nell’umiltà dell’andare. E’ parola che predilige la condivisione. E’ parola che vuole salmoidiare il cambiamento, la resa, la trasformazione insita in un esistente cercato nella dimensione di sacralità silente.

L’andare di Bardotti, all’interno di questa silloge, è nutrita dal movimento circolare che torna al tempo del Quoelet, al tempo delle fonde unioni con il Creato, al tempo in cui l’apertura alla riflessione della morte costituiva accoglienza del limite come misura e atto fondante umanità e processo di umanizzazione.

Centrale e denso di significati il tema legato alla morte della morte motore primo della ciclicità che consente rinascita ed eternità, superamento della materia rancorosa, del doppio che chiude le soglie e le rigenerazioni.

La poesia, nella visione di Bardotti, salva perché consente scavo salvifico e umano andare in direzione dell’ascolto verso un territorio che non ammette idoli. In molti passaggi questi versi portano nel dentro rivisitato delle rabbie di Cristo al Tempio nella cacciata dei mercanti o, ancora più dietro, alla pagina dell’Esodo relativa al Peccato del Vitello d’oro voluto da Aronne. Una poesia smagata capace di parlare ai valori odierni trafiggendoli al palo di un sentire in grado di trascenderli dopo averne smembrato la menzogna.

Accorata la parola poetica quando diviene quasi supplica che s’annida nel Tutto del creato.

“C’è un’alba segreta in tutte le cose
una nascita antica
qualcosa che fu e che sarà.

C’è un ordine sacro che siamo io e te
nello stesso respiro respirati,
un ordine sacro che dice di te, di me
che nulla possiamo
se non l’abbandono.
…”[2]

Le sezioni: Si vive solamente allora esatta, La chiameranno felicità, L’origine degli organi, Anna e le altre, C’è una crepa in ogni cosa, Ora amarci è un vento quieto, Tu, Ditelo ai vostri figli. Un crescendo di posizioni intorno a temi che dicono la relazione vita e morte, immanenza e trascendenza, pieno e vuoto, assenza e presenza, vuoto e pieno… Sono, questi, taluni dei contrari in grado di narrare dimensioni precise dell’essere in una contemporaneità che chiama ad una rifondazione valoriale la quale possa essere in grado di tornare ad indicare essenza e cammino.

“C’è un eco nella malinconia
un ricordo che annuncia il futuro.
Ma noi siamo distratti da un filo d’erba
intrecciato nei capelli di chi amammo”[3]

L’intreccio di passato e futuro allude a necessità di nuova tessitura. Una tessitura capace di farsi ordito e trama altra tra radice e terra, tra individualità e coralità.

“Alla famiglia umana apparteniamo
abbiamo milioni di anni.
Ma più di tutto apparteniamo a  una radice
che affonda nella terra dal principio.
E più ancora apparteniamo alla sorgente
che rese fertile la terra e la radice.
Tutta la creazione risponde alla premura
Di una vasta e antica paternità.
La felicità è un’obbedienza, è appartenenza.”[4]

Eco, ancora, del ritorno ai saperi veterotestamentari lì dove la semenza genera e prolifica ciò che è antecedente al popolo così come abbiamo imparato ad intenderlo noi, dall’epoca moderna in poi. Lì dove il fiume fonda spazio abitato. Lì dove la nominazione delle genealogie dice di Voce nella tenda cui rispondere con obbedienza. E’ obbedienza rivoluzionaria. La chiusa allude all’unità in cui versare possibilità di vita per l’intera umanità; umanità possibile nell’afflato d’unione che impasta appartenenza e essere identitario, possibilità –ancora- di riconoscimento.

Il richiamo dei  versi di Bardotti non è alla fondazione di popolo ma di famiglia umana, è afflato verso la radice la quale abita la terra e ne genera fertilità. La parola poetica genera simbolo e la salvezza è in avanti ma, anche, alle spalle lì dove i sacr’incontri sono imperituri e albergano tra i vivi e i morti indicandone reciproca appartenenza. La morte, foriera di trascendimento della condizione umana che si consuma nell’infero della materia, piange la perdita della verità che, pure, era stata annunciata. Come evocare quella verità e consentire ad essa di ritornare nella profondità del suo annuncio?

Le pause della silloge non sono spazi vuoti ma alludono al pieno della preghiera che canta “l’intermezzo” nel senso di passaggio ad altro. Alessandra Paganardi nella nota introduttiva rimanda al senso dell’uso del Kaddish nella cultura ebraica ed ha, con ciò, dato verità ad un utilizzo del verso capace di alludere all’andare verso la glorificazione della grandezza. E’ grandezza che si rivela ed è nonostante perdite e oscuramenti mai consacrati per l’eterno, oscuramenti al di là della storia dell’umano andare.

L’additarci profondo il senso del poetare ha, in Bardotti, cura e orizzonte di libertà. La poesia è oltre ogni possibile storia, oltre ogni possibile credo stigmatizzato. La poesia è cura della Radice, tale “aver cura” va al di là d’ogni possibile muro. E’ cura che preserva. E’ cura di cui aver cura attraverso apprendimento continuo. E’ il convivere con la spiritualità. E’ consapevolezza che, tale spiritualità, sia nella Terra lì dove la trascendenza non si presenta come empireo irraggiungibile ma come tensione del seme a germogliare, generare nel ciclo eterno che, Bardotti, è capace di mostrare per cantarne la possibilità di tenerci, tutti, nella Pace che, sola, genera umanità. Nulla di più attuale, oggi, di questa profonda riflessione donataci in poesia. E’ riflessione che genera pensiero eppure, non è pensiero figlio di Logos. E’ pensiero capace di scavalcare ed affondare nelle memorie dell’origine con atto di trascendimento che rimette in piedi genealogia e gerarchia di saperi. E’ rammemorazione del dato che umanità vuol dire affondo nella spiritualità, sapere e atto di elevazione e Canto attraverso Amore. Quell’Amore  che tutto muove e di cui Bardotti ne dice l’assoluto che abita l’umano affinchè, esso, (l’umano) possa essere al di là di ogni possibile erranza, al di là di ogni disorientamento esistenziale.

“Siamo un impasto di polvere e amore
e alla fine si separa l’impasto:
la polvere torna alla polvere.
L’amore all’amore”[5]


[1] Massimiliano Bardotti, La terra e la radice, puntoacapo ed. 2021,  pg 66

[2] ivi pg 97

[3] ivi pg 46

[4] ivi pg 38

[5] ivi pg 49