di Marcello Buttazzo

Tempo, da sempre, alterno e incerto, che vagola come clessidra sulle sabbia del giorno, rubando istanti. Istanti d’eterno. Tempo di periferia, vissuto a fari spenti, nelle notti di luna piena, per strappare alle stelle raggi incidenti e radianti d’infinito. Quante volte sollecitammo il tempo? Quante volte respirammo tormento, chiudendoci a riccio d’aculei nella nostra scorza ferita? Quante volte salutammo il mondo sensibile, “incapace di comprendere”, e ci rifugiammo nelle ascose periferie? Quante volte addebitammo all’altro la nostra incapacità di amare? Quante volte onnipotentemente pensammo che il nostro dolore fosse “la ragione del mondo”, “la dimensione aritmetica di tutte le cose”, l’epicentro d’ogni accadimento? Non giova ad una definizione limpida del nostro sé una visione intransigente, asfittica, come se la quotidianità respirata fosse un susseguirsi di bianco e nero, un corollario di estremizzazioni. La vita è un giardino di tonalità intermedie, di corse e rincorse, di cadute, di risalite. La vita è un Eden di possibilità e va accettata sempre, nella gioia e coi ginocchi piagati. Va masticata quasi fosse una verde foglia. Metabolizzata coscientemente e lentamente, ascoltata nei suoi echi silenti e fragorosi, nei suoi frastuoni, nelle sue maree di ritorno. Va accolta nel suo luminoso albeggiare, quando i fiochi lucori sono promesse, attese. E, forse, qualcosa verrà. L’esistenza va vissuta con occhi da poeta incantati e semplici. Occhi da fanciullo. E ogni tramonto è una passione d’ardore, che nel cielo s’arancia. E la notte, che a volte impetuosa e impietosa avvolge le nostre esistenze con nera mantiglia, è solo un episodio nel perpetuo cammino, una parentesi, una strada comunque da traversare, da varcare. Quante volte incautamente pensammo, tra l’altro, che l’esistenza degna di essere vissuta dovesse essere solo integrità? La vita, invece, può essere talvolta anche travaglio. Il dolore e la malattia hanno una memoria, un codice, un’etica, un’ontologia, un cosmo di stelle. Alda Merini, ne “La Terra Santa”, cantava: “la malattia ha un senso, una dismisura, un passo, anche la malattia è matrice di vita”. Anche nella sofferenza più straziante e amara non viene mai meno il desiderio del sogno. Nei suoi interminabili giorni di manicomio, Alda Merini scriveva: “Ecco, sto qui in ginocchio, aspettando che un angelo mi sfiori leggermente con grazia, e intanto accarezzo i miei piedi pallidi con dita vogliose d’amore”.

Marcello Buttazzo