Giuseppe Spedicato
La maledizione della violenza.
Se vogliamo la pace dobbiamo osteggiare
le condizioni che la impediscono

A causa dell’egoismo umano si ripete sempre una vecchia storia, quella del predominio dei pochi sui molti. Quella della ricchezza sottratta ai popoli che finisce nelle tasche di coloro che detengono il controllo della forza, della violenza e delle risorse naturali. Ciò avviene grazie a guerre, colpi di stato, utilizzo della tortura, elezioni truccate, patti con organizzazioni mafiose, tangenti, estorsioni, omicidi, sesso, manipolazione dell’informazione e controllo della cultura. Avviene da sempre ora però le dimensioni sono globali e i numeri sono terrificanti.

Questo egoismo, questo desiderio di predominio, questa iniqua ripartizione delle ricchezze, sembra non essere all’ordine del giorno del dibattito politico, lo è invece la crescita economica. Non si vuole negare l’importanza di questa crescita, ma la convinzione che grazie a essa, qualunque essa sia, si possa creare benessere per tutti. Questa convinzione può rivelarsi un’amara illusione se non si pondera bene di quale crescita economica si sta parlando e di come saranno distribuiti i relativi benefici. Vi può essere una crescita economica che non solo provoca ulteriori danni all’ambiente, ma che aumenta anche il divario di ricchezza tra ricchi e poveri.

Questa idea, come tante altre, è promossa a livello globale anche tramite il controllo dell’informazione e della stessa cultura dei paesi. Cultura che tende a divenire, non senza resistenze, sempre più omogenea a livello mondiale.

Anche i prestiti concessi ai paesi in difficoltà, che appaiono un atto di generosità, non poche volte sono un modo per accrescere il potere dei potenti. I paesi che ricevono questi prestiti possono essere indotti a investimenti fallimentari e restare intrappolati in un rapporto di sudditanza con i soggetti dai quali hanno ricevuto i prestiti. Il loro rimborso li condanna a concedere ai creditori di saccheggiare le loro risorse naturali e di rinunciare all’istruzione, alla sanità, ai beni pubblici. Ciò avviene grazie anche a gravi colpe dei gruppi dominanti degli stessi paesi in difficoltà, che non poche volte sono classi predatrici spietate.

Non avremo alcuna via d’uscita sino a quando non si converrà sulle vere cause di questo meccanismo infernale che ormai sta colpendo ferocemente anche la stessa Europa. Non possiamo però sperare che questa scoperta ci venga da coloro che sono i primi beneficiari di questa prassi.

È bene osservare che il meccanismo è valido anche a livello locale. Nel nostro paese quanti possono vantare diritti e privilegi grazie allo sfruttamento di tutti coloro (compresi gli immigrati) che lavorano con contratti precari o in “nero”, ma anche grazie all’enorme evasione fiscale? Per i privilegiati non è conveniente accettare la verità dei fatti e quindi le logiche conseguenze. Per tale ragione far conoscere questi meccanismi, informare correttamente su quanto sta accadendo, non è sempre considerato un fatto apprezzabile. Ancora meno apprezzabile è utilizzare in modo corretto gli aiuti indirizzati ai popoli più bisognosi o alle fasce sociali più povere di un paese. Si è d’accordo sull’assistenzialismo ma a patto di non esagerare con politiche tendenti a promuovere la giustizia sociale. I veri aiuti, quelli che consentono di uscire dalla povertà e quindi dalla dipendenza, sono ritenuti una minaccia. Va bene però smantellare le economie locali e quelle di interi paesi che hanno consentito per migliaia di anni la sopravvivenza di interi popoli. Basti vedere cosa è accaduto all’agricoltura nel Sud Italia.

Come alcuni affermano ci stiamo avviando verso una forma di nuovo feudalesimo, basato soprattutto sulla rendita, dove anche i lavoratori della stessa Europa diventano sempre di più moderni servi della gleba. In molti paesi poveri i lavoratori hanno uno status giuridico molto simile a quello di uno schiavo. I nuovi mercanti di schiavi sono coloro che reclutano gente disperata per impiegarla a produrre merci destinate ai mercati di tutto il mondo. E ciò avviene in impianti industriali che non sono neanche gestiti direttamente dalle corporation, ma da qualche uomo d’affari locale che fa il lavoro sporco per conto loro.

Modalità operative simili sono utilizzate anche nel Sud Italia dove è florido il fenomeno del “caporalato”, ed è solo un esempio, dove le vittime non sono solo immigrati ma anche tantissime lavoratrici e lavoratori italiani. Questa modalità spesso viene presentata anche come meritoria: “Noi riusciamo a dargli un lavoro, è meglio che lavorino per noi per un compenso basso che non lavorare affatto”. In alcuni paesi poveri i lavoratori ricevono un dollaro al giorno o poco più.

Pertanto, se pensiamo di vivere in un mondo dove vi è un sistema economico pensato e gestito per risolvere i problemi del genere umano, dobbiamo ricrederci. Siamo in un sistema dominato dalla violenza, comprese le nuove forme di violenza (come il controllo dell’informazione e della cultura), che produce ricchezza per pochi e nel frattempo produce poveri ed emigrazione. Questo sistema sta compiendo il saccheggio di risorse più brutale della storia dell’umanità. Accettiamo come vangelo i dettami di questo sistema e non riusciamo a elaborare un’alternativa a esso. Come è stato già detto, siamo convinti che qualsiasi tipo di crescita economica giovi all’umanità, e che maggiore è la crescita, più diffusi sono i benefici. Questo concetto è impiegato per giustificare ogni sorta di azione, persino guerre, se si può dimostrare che producono crescita economica. E si può dimostrarlo facilmente. Una guerra comporta la distruzione di infrastrutture, di città intere. Se dopo inizia l’opera di ricostruzione le statistiche registreranno una elevata crescita economica, basta non tener conto dei danni collaterali. E non tenerne conto, sino a poco tempo fa, non è stato difficile: a morire erano solo gli altri.

Si è voluto trattare della genesi di queste problematiche ripartendo la narrazione in due parti. Nella prima (Il mondo della produzione della violenza), si è fatto ricorso soprattutto alle tesi di due grandi autori: Ibn Khaldun, arabo, e Werner Sombart, europeo. Nella seconda parte (Dialogo sulla disumanizzazione della maggioranza pacifica) si è fatto ricorso soprattutto ad esperienze maturate dallo scrivente. Esperienze basate sul dialogo con soggetti appartenenti ad altre culture.

[La copertina del libro è illustrata con l’immagine di una scultura di Claudio Rizzo]

Giuseppe Spedicato