di Pietro Maiorca –

Prima Parte

Le regole del rito, sia giuridico che religioso, sono dominate dal rigore delle forme: se si vuole che sia efficace, riconoscibile e memorizzabile, il rito deve essere compiuto con modalità precise e inequivocabili, deve perciò avvalersi di un sistema di comunicazione improntato esclusivamente all’oralità (la parola) e alla visività (il gesto); attraverso questi stereotipi verbali e gestuali il rito afferma l’immutabilità dei suoi enunciati. Il rito è dunque fonte di normatività, esso realizza la tradizione ovvero garantisce che ogni ordinamento (giuridico, religioso, sociale) si mantenga conforme a quello tramandato.

Il significato originario del rito – che è quello di rinnovare, evocandolo, il contatto con la divinità – è andato completamente perduto nel corso dei secoli, ma ha continuato a riflettersi in quel codice comportamentale che, presso ogni società, detta le regole del vivere civile. E cos’è quest’ultimo se non il codice morale che dirige tutte le azioni umane? E cos’è la tradizione se non il rispetto di questo codice?

In tutte quelle società non ancora toccate dalla meccanizzazione dei processi produttivi, dalla modernizzazione delle comunicazioni e dall’incalzare di nuovi modelli culturali, i precetti del codice morale si traducono in comportamenti che sono sempre gli stessi, in rituali standardizzati e ripetitivi, in tutto ciò, insomma, che connota la tradizione popolare. Anche i modi di incontrarsi, di salutarsi e persino di amarsi e di odiarsi ricalcano sempre gli stessi schemi da cui non è ammessa alcuna deviazione. Chi trasgredisce queste regole si rende colpevole di minare l’impalcatura su cui poggia l’intera struttura sociale, ne incrina l’equilibrio, ne paventa la progressiva disgregazione: in caso di simili devianze giungono sempre, puntuali e inappellabili, severe sanzioni sociali, fra cui il pubblico disprezzo e l’isolamento non sono che quelle meno gravi.

In passato ogni tipo di relazione sociale era assoggettato a pratiche ritualistiche, per cui ogni azione era e doveva essere prevedibile; nel rito – e nella tradizione ad esso conseguente – risiedeva la sicurezza di sapere che ciascun componente la comunità si sarebbe sempre comportato nel solo modo che era lecito si comportasse.

La solennità che veniva posta nei riti relativi alle ricorrenze stagionali (le feste cicliche del calendario agrario e religioso) e in quelli relativi alle tappe fondamentali dell’esistenza (nascita, matrimonio, morte) era la stessa che caratterizzava un’infinità di ritualismi che si applicavano anche alle situazioni più comuni della quotidianità.

È quasi banale ricordare il gesto di lanciare sui novelli sposi, subito dopo la cerimonia nuziale, pugni di grano o di riso come augurio di prosperità. Oggi la gente non si preoccupa eccessivamente se questa o altra usanza viene trascurata; in passato, invece, l’astenersene equivaleva a dimostrarsi scriteriati e sacrileghi, se non proprio degli infami: era questa, quando andava bene, la sorte di chi trasgrediva le regole imposte dalla tradizione.

Non sempre però i nostri modi comportamentali si presentano in forma logica e comprensibile; a volte affondano la loro origine in tempi troppo remoti perché se ne possa individuare il loro significato originario; tuttavia, anche quando sembrano non avere alcunché di razionale, nascondono sempre, ad una più attenta analisi, l’eco lontana della loro ragione di essere, proveniente da quella religiosità primordiale che vedeva nel rito il mezzo necessario per evocare la divinità. Che dire, infatti, dei divieti imposti agli sposi nei giorni precedenti la cerimonia nuziale: per l’uomo, di vedere l’abito nuziale della sposa e, per la donna, di preparare da sola il letto matrimoniale? È evidente che molto spesso, come in quest’ultimo caso, si tratta di pura e semplice superstizione, ma ciò non sposta i termini del problema, essendo la superstizione nient’altro che una religione parallela (abusiva, in un certo senso) rispetto a quella ufficiale, ovvero una credenza che sta al di fuori o al di sopra (super) di quella stabilita d’autorità. Comunque, pur sapendo bene che certe credenze sono del tutto illogiche o irrazionali, non facciamo niente per liberarcene, anzi, le trasmettiamo ai nostri figli in un tentativo oscuro di conservare qualcosa che ci appartiene, di perpetuare qualcosa che fa parte di noi.

Certe regioni d’Italia che, per essere state per lungo tempo neglette e isolate, risultano essere particolarmente ricche di lasciti antichi, conservano dei modi di dire assolutamente incomprensibili ad un orecchio estraneo, ma che, contestualizzati e correttamente interpretati, dimostrano di discendere senza ombra di dubbio dal rito che li ha ispirati. In Sardegna, ad esempio, si dice ancora “bisognerà conficcare uno stecco nel muro” per rimarcare in tono scherzoso un’azione compiuta da qualcuno che, per sua indole o incapacità, non aveva mai compiuto prima: un’azione eccezionale, dunque, almeno rispetto alle possibilità del suo autore. Questo modo di dire si connette in maniera sorprendente col rito etrusco del “chiodo del destino” che si celebrava nel tempio di Voltumna, a Norchia, in occasione delle feste panetrusche: la cerimonia si svolgeva ogni anno e consisteva nell’affissione solenne di un chiodo sul muro all’interno dell’edificio, in onore e rappresentazione di Athrpa, la dea alata che fissava il corso degli anni e degli eventi, che stabiliva la durata della vita, sia del singolo individuo che dell’intera nazione, che tutto racchiudeva in un limite di tempo predeterminato e invalicabile. E poiché presso gli etruschi gli anni non venivano calcolati in termini strettamente cronologici, ma finivano e ricominciavano in coincidenza con la comparsa di fenomeni straordinari (catastrofi naturali, apparizioni di comete, cadute di fulmini, ecc.), ogni chiodo piantato stava a significare un evento eccezionale.

Sempre in Sardegna, l’espressione “possano vederti con i piedi rivolti verso l’uscio” corrisponde a un augurio di morte il cui senso, però, non può comprendersi se non si sa che il morto si suole sempre deporre, dentro casa, con i piedi rivolti all’uscio (nell’idea che lo spirito, liberandosi proprio dai piedi, possa più facilmente abbandonare la dimora terrena). Si tratta di un’usanza antichissima di cui ci dà testimonianza Omero nel canto XIX dell’Iliade (risalente al secolo VIII o IX A.C.): Achille, invitato a pranzo da Agamennone, è costretto a declinare l’invito perché il suo amico Patroclo è appena morto per mano di Ettore: “d’acuto acciar trafitto egli mi giace nella tenda coi piè volti all’uscita”.

L’usanza di raccogliere il pane caduto inavvertitamente a terra, baciarlo con devozione e infine riporlo (mai capovolto) sul tavolo, non esprime soltanto il rispetto per un bene che è fonte primaria di sussistenza, ma è anche riconducibile a quel paganesimo che vedeva nel sole l’essere divino preposto alla fertilità della terra. Il pane è un dono di cui si deve render grazie al sole; il pane è un “segno” del sole, anzi, esso “è” il sole: è questo il vero motivo che lo rende oggetto di tanto rispetto. Non è un caso che in molte comunità il pane delle feste venga tutt’ora confezionato in forma di disco (un rosone fornito persino di raggi) quale inconfondibile simbolo solare. Tanto per restare ancora in Sardegna, è il caso di ricordare che in questa regione persiste l’espressione “l’ho pregato così come si prega il sole” per dire che si è invitato caldamente qualcuno a fare qualcosa, implorandolo oltre ogni misura: a dimostrazione di come anche un modo di dire possa veicolare, sia pure inconsapevolmente, una tradizione e dunque una ritualità plurimillenaria.

E il ballo? Cos’altro c’è che mostri una uguale fissità di azioni che si ripetono inalterate nel tempo? Cos’è il ballo se non un’attività che ricalca un rito fortemente intriso di misticismo? Perché proprio di un rito si tratta: di un rito che risale ai tempi in cui gruppi di cacciatori-raccoglitori cominciarono a trasformarsi in agricoltori stanziali. Infatti, fintanto che la ricerca di cibo si basò sulla caccia e sulla raccolta di frutti, il risultato degli sforzi compiuti era sempre immediato e ben chiaro agli occhi di tutti, e ciò era sufficiente per garantire la coesione del gruppo. Quando però si iniziò a cercare nell’agricoltura una nuova fonte di sostentamento, la coesione del gruppo apparve seriamente in pericolo perché il risultato non era immediato né sembrava dipendere (come nella caccia) dall’abilità dei singoli individui. Si invocarono allora le forze invisibili dell’universo che presiedevano all’abbondanza dei raccolti; si ricorse, cioè, ai riti, e il ballo doveva essere sicuramente uno di questi: una cerimonia collettiva grazie alla quale si entrava in contatto con la divinità e, allo stesso tempo, si rafforzava il senso di appartenenza al gruppo (naturalmente, anche i cacciatori praticavano balli rituali collettivi, ma fu con l’avvento dell’agricoltura che questa pratica assunse la sua più congeniale destinazione).

E perché sputare sulle persone e sulle cose in segno di scongiuro o per reazione ad uno spavento? Certo, i tempi sono cambiati; ciò che prima era costumanza, oggi è scostumatezza: le nuove “buone maniere” hanno messo definitivamente al bando certe manifestazioni così poco rispettose delle più elementari norme igieniche; eppure c’è ancora qualche mamma che accenna a sputare sul viso del figlioletto quando a quest’ultimo viene rivolto un complimento che si teme possa trasformarsi in una iattura. Ma è soprattutto la paura improvvisa a mantenere ancora in piedi, se pure in maniera sempre più precaria, l’abitudine dello sputo (anche perchél’immediatezza della reazione non lascia molto tempo per frenare certe intemperanze: è tutt’ora frequente, infatti, l’uso di sputare in direzione della cosa o della persona che ha provocato lo spavento. È evidente che si tratta di un’azione finalizzata ad esorcizzare un pericolo, un evento sfavorevole o un influsso maligno; ma, al di là di ogni analisi interpretativa, ciò che qui importa rilevare è che anche lo sputo viene ritualizzato, che anche un fatto emozionale, quale può essere lo spavento, viene affidato alla tradizione.

Un caso paradigmatico è rappresentato dal pianto funebre. Essendo infatti, il momento della morte, specialmente nel mondo primitivo, un evento destabilizzante, oltre che una grave crisi affettiva, economica e sociale, è indispensabile trasformare lo stesso pianto in pianto rituale, che è l’unico mezzo per controllare il disorientamento e ristabilire l’ordine violato: per riportare, in definitiva, il corso della vita nel solco della sua normalità. 

È il caso anche delle favole. Identificandosi col rito di fondazione, esse rappresentano per se stesse una pratica rituale che ne fa efficaci mezzi di omogeneizzazione dell’immaginario collettivo. In tal senso, altro non sono se non la trasposizione allegorica dei desideri, delle paure e dei sogni che hanno accompagnato i primi passi di tutta l’umanità: le favole, insomma, mostrano di essere ciò che resta di quell’idea collettiva che mira a dar ragione del modo di essere delle cose, del mondo che ci circonda e di quello che noi stessi siamo.

Si è parlato di tradizioni che risalgono a tempi antichissimi, ma, ci si può chiedere, a quanto tempo indietro le stesse debbono risalire per essere considerate tali? Le tradizioni, in realtà, non hanno bisogno di alcuna certificazione anagrafica. Molte tradizioni muoiono, altre ne nascono e, fra queste, non sono poche quelle inventate di sana pianta. Anzi, anche quelle più recenti, che non sono così longeve da garantire una certa autenticità, hanno pieno diritto di essere incluse in questa classificazione. A condizione, ben inteso, di rispondere a precisi requisiti, cioè di esser capaci di dettare norme comportamentali che non deflettano dalla continuità col passato, di avvalersi (a differenza delle semplici consuetudini) di pratiche ripetitive che si tramandino di generazione in generazione e, soprattutto, di essere in grado di fissare (o simboleggiare) la coesione sociale e l’appartenenza identitaria, sia che si tratti di un gruppo, di una comunità o di un’intera nazione. È pur vero che oggi è impensabile cercare un contatto con una qualsivoglia divinità, ma è anche vero che la società moderna ha ancora bisogno di miti e di riti su cui ogni nuova tradizione possa impiantarsi e prosperare.

Piero Maiorca