di Gianni Ferraris –

Non sono un critico teatrale, ma un comune spettatore, quindi non sono in grado di scrivere cose dotte e colte.  Mi limito a descrivere sensazioni, emozioni, ricordi. E così l’articolo è nato come lettera (aperta) al regista e protagonista di un evento che è stato unico ed irripetibile.

Ciao Mario
Accidenti a te! Hai fatto piangere un’intera platea.

Ho saputo del progetto Versoterra e mi sono detto che, si, forse valeva la pena, “in fondo Perrotta è bravo, andiamoci”. Così mi sono calato in un “full immersion Perrottiana”,  come dicevo agli amici che non amano svegliarsi all’alba, “passerò tre giorni a vedere cosa combina il narratore Perrotta” poi ne parleremo, dicevo agli amici.

Così è arrivato il venerdì mattina, ad ascoltare, a vedere la prima parte di Emigrati Express al Carlo V°. Uscendo da quella prima parlavo con un amico, era stato bellissimo, però c’era in me la sensazione che qualcosa dovesse ancora essere detto.
Poi la sera alle 20,45 ad Acquaviva a imparare la storia vera di Lireta Katiaj – A chi viene dal mare.

Il palco dentro al mare, un luogo meraviglioso del Salento, il sottofondo delle onde lievi, molta gente, un freddo che penetrava con la sua umidità, e sul palco lei, Paola Roscioli, immensa.

In un’intervista che ti feci nel 2014 mi dicesti “si, è attrice molto più brava di me”. Non faccio paragoni, però, accidenti, è brava veramente, la storia di Lireta raccontata nel silenzio irreale, con il rumore delle onde, con musica, e quella sensazione di disagio inquietante. La sensazione di essere noi spettatori i “fuori luogo”, non quella Lireta che parlava sul mare, quella “straniera”.
Storie come coltellate, Lireta è venuta dal mare, come migliaia di immigrati ha un passato pesante, denso, scuro.
Ed è “solo” una storia fra le mille e altre mille di questa immigrazione, e le emozioni assalivano me e chi stava con me. Tutti eravamo bloccati al freddo. Non era il freddo però a tenerci immobili, a farci ascoltare, oltre la narrazione e la musica, solo il rumore dei nostri respiri. Erano le  coscienze che scalpitavano, e le domande, una due, tre, cento, non dette, solo pensate  in una specie di coro collettivo che aveva per sottofondo Lireta, il mare, l’Albania immaginata oltre il nero della notte, a pensare a come  reagire all’assurdo ed incredibile vero che ci avvolge di fronte a queste persone che arrivano dal mare,   diventato suo malgrado cimitero di speranze, amori, voglia di vivere. Pieno di corpi veri.  Quell’urlo di Paola Roscioli/Lireta   guardando al di là del mare “vieni qui Albània”, anche se sa che lei sa che non potrà mai arrivarci qui, quell’urlo è identico a quello delle migliaia di immigrati. L’odio verso le terre lasciate, l’amore per le stesse terre.  No, non era solo il mare, neppure la cruda bellezza di Acquaviva, non erano solo quelli ad emozionarci, a farci stare in un silenzio che lasciava spazio solo alle onde e alla musica in sottofondo. Era quella domanda sul perché siamo diventati così. Perché siamo tanto bravi ad abituarci a tutto, a scordare anche di indignarci di fronte alle nefandezze. Macchè Mario, l’immensa Paola e la storia di Lireta ci hanno emozionati. Ora però ci tocca ripartire, rifare i ragionamenti, ci tocca imparare a capire che non abbiamo diritto di abituarci, che l’indignazione è un sentimento nobile, alto, fiero.

Il mattino dopo, erano le 4,30 quando suonava la sveglia, e poco dopo eravamo  a San Foca, di fronte ad un altro mare da dove l’alba avrebbe illuminato i monti di Albania poco dopo. Alle nostre spalle uno dei crimini contro l’umanità più grandi di questo Salento. Cos’altro è stato il centro di accoglienza Regina Pacis se non un vero e proprio crimine? Ce l’hanno raccontato gli attori con la regia di Ippolito Chiarello. Con parole degli attori che ci hanno messo di fronte ai pregiudizi di questo primo mondo: “Io sono venuta qui per fare la puttana” “io sono venuto per rubare” “io sono venuta per costringere le donne a mettersi il velo” e così via, in un rosario fatto di luoghi comuni nel mondo detto “primo”.
E io pensavo che nel comune parlare esistono il primo e il terzo mondo, manca il secondo. Forse per marcare le differenze in modo inequivocabile: noi i primi voi non sarete mai secondi, siete merce di scambio.
Poi la musica, poi le testimonianze di due ragazzi che in quel centro maledetto erano stati rinchiusi, con quel prete che ha l’emblematico cognome Lodeserto, che sfruttava l’accoglienza per arricchirsi sotto l’ala protettrice di un vescovo che aveva comportamenti definire “discutibili” è solo un sottile eufemismo.
Macchè Mario, questo non dovevi farcelo, dovevi lasciarci credere che il teatro, in ogni sua forma, fosse un luogo di svago, dove si va per divertirsi, mica per piangere o per fare esami di coscienza.
Così dopo le “Partenze” di San Foca sono tornato a Lecce, giusto il tempo per rilassarmi un attimo e di nuovo al Carlo V°, andava in scena la seconda parte di Emigranti Express e volevo capire perché quella sensazione di disagio, di non detto.
Mentre camminavo verso il castello mi veniva in mente l’intervista del 2014. E quel tuo rammarico nell’essere dovuto andar via, in particolare quelle parole dove, ancora, il mare sembra essere il fulcro della salentinità e il confine senza linee: Un mare non solo per andarsene quindi.
Per andare, forse è meglio. andare per lavorare, per scoprire, a volte anche per cercare un figlio in Africa. invece la voglia di tornare ed essere nuovamente leccese per me è stata una conquista. Me ne andai perchè sentivo la mancanza di opportunità per quello che volevo fare. Partii nel 1988 per Bologna all’Università. Mi iscrissi a ingegneria, passai brillantemente un esame e migrai a Filosofia. a Bologna nacque la compagnia di teatro, dopo anni di gavetta, di buone cose fatte, era un teatro in gestione e dopo anni di recitazione anche con artisti come Anna Falk, Graziosi, Glauco Mauri, ad un certo punto mi trasferii a roma dove ho incontrato mia moglie (l’attrice Paola Roscioli n.d.r.). Però mi accorsi che non stavo bene da nessuna parte.  L’intuizione arrivò: il problema ero io, non i luoghi altri, le altre persone. io non ero metropolitano, ero leccese fino al midollo. Ho sentito il bisogno di riconquistare i miei luoghi, quelli in cui sono nato e dove è nata tutta la mia famiglia. sono tornato a casa con l’anima, italiani Cincali è nato da questa esigenza di ritorno. Ho ripreso in mano il mio dialetto, quello parlato dalla mia gente. e la storia non poteva non essere che racconto di emigrazione. La mia fisionomia è diventata chiara e leggibile proprio da quel passaggio.

Tito Schipa, Carmelo Bene, Antonio Verri, Vittorio Bodini, Mario Perrotta. L’unico che è rimasto in Salento è Verri che ancora deve essere riconosciuto in tutto il suo valore, gli altri te compreso, hanno dovuto andarsene per farsi riconoscere.
Siamo ai confini del regno. Oggi forse internet ha sdoganato anche il Salento, moltissimi vogliono venirci grazie alla rete. in uno dei monologhi che scrissi per la RAI, dicevo che il Salento è una zattera separata dal resto d’italia. Pensiamo a queste terre com’erano solo negli anni ’70, per arrivare a Bari impiegavi due ore e mezzo, immagina una persona che parte solo da Galliano del Capo, era un viaggio anche solo arrivare all’oppidum, a Lecce. Gli artisti che hai citato hanno fatto una scelta, spesso dolorosa e sofferta, di andare a cercare fuori la possibilità di esprimersi, di fare ciò per cui erano nati. Vedi, io so fare bene una sola cosa nella vita: il teatro. ne vado fiero. Per riuscirci, però, sono dovuto andare via, capivo che qui non avevo opportunità. Tuttavia questa è terra di formazione, io penso di non avere nessun merito, sono semplicemente nato nel posto giusto. Permettimi però, fra quelli citati manca il nome di un altro grande, Franco Causio. nel suo ruolo è stato un genio, ha inventato l’ala destra moderna.
E va bene, mi dicevo, aspettiamo questa seconda parte di spettacolo. Quell’ora è passata leggera, pesante, l’abilità del regista/attore riuscivano ad alternare risate a momenti in cui l’inquietudine si faceva risentire. Io ed il mio amico reincontrato eravamo commossi e felici di averti sentito. Però ancora c’era un non detto nell’aria, e chissà cosa diavolo era.

Ventiquattro ore sarebbero passate perché tu uscissi allo scoperto, nella terza parte di Emigranti Express, in cui il viaggio arriva in Belgio per poi tornare “nel sole”. La luce del Salento in cui sei tornato con quel treno. E tutto l’amore per questa terra, e tutto l’odio per le sue contraddizioni sono esplose improvvisamente, un crescendo di parole a chiusura della spettacolo che hanno lasciato la platea immobilizzata fra commozione e lacrime, quelle degli spettatori e le tue mischiate. Non era senso di impotenza, forse solo consapevolezza e terrore e voglia di sentire quelle parole che non uscivano da un copione qualunque ma dal cuore, proprio come quando si scrive con gesti che vanno dal cuore alla tastiera senza passare per il cervello. Parole di condanna per il malaffare, per quei “salotti invisibili” che governano la città dal chiuso delle loro stanze di potere, contro l’assuefazione alla compravendita di voti e avanti con tutto un rosario di problemi che ingessano questa terra, vorrebbero immobilizzarla.

Il tuo Salento che, almeno questa volta, e almeno in parte, è riuscito a riabbracciarti. Hai sentito l’affetto? Ho capito, penso di aver capito, il dolore di chi arriva dal mare e quello di chi il mare ha dovuto lasciarselo alle spalle, grazie alle tue parole che cercavano storie di minatori, viaggiatori loro malgrado, espulsi, cacciati da terre che non sapevano offrire dignità. E ricordo i racconti di lassù, in Piemonte, ricordo che mi dicevano di emigranti nelle Americhe, in Francia e altrove.
E tutti abbiamo capito che questo Salento che ti ha cacciato via non ti perderà mai. Per fortuna sua.

Accidenti a te, aspettavamo un guitto ed abbiamo trovato chi ci ha messo di fronte alle nostre contraddizioni, quelle dei salentini e di chi vive in Salento anche se salentino non è. Quelle delle persone tutte che non si indignano più. Accidenti a te Mario. E’ vero quello che dicevi nell’intervista “sono tornato a casa con l’anima…”

E non è stato un colpo di teatro neppure quel ripresentarti sul palco a ricevere applausi con tuo figlio Gabriele in braccio, macchè, era un gesto di leggerezza e di dolcezza, mentre vedevo donne e uomini ancora con le lacrime agli occhi.

Mancava ancora un appuntamento, ancora una volta in riva al mare, ancora con la regia di Ippolito Chiarello siamo andati a Porto Selvaggio. Si, proprio il parco naturale per il quale Renata Fonte venne ammazzata perché i cementificatori volevano costruire proprio lì e lei si opponeva. Una camminata fra le nostre contraddizioni ancora una volta, nel bosco giù fino al mare passando fra attrici e attori che erano prostitute, raccoglitori di pomodori gestiti da caporali nei campi di salentini, operai in nero sfruttati, badanti… un esercito di irregolari. Poi quegli altri attori “appesi” ad una richiesta di asilo che non consente loro alcun movimento, non possono andare perché sono “richiedenti asilo”, non possono fare nulla in attesa. Sono Appesi in senso figurato come gli attori erano appesi in senso reale agli alberi, crocifissi.

E poi i racconti di come “loro” ci vedono, ancora una volta di fronte alle nostre contraddizioni, ancora una volta lacrime di molti spettatori. E poi di nuovo il mare, quello di Porto Selvaggio con i corpi di immigrati che galleggiavano, pesci fra i pesci… Immobili, cullati dall’acqua.

La sera poi a casa, con una sensazione di vuoto perché ci mancherà tutto questo, nonostante l’angoscia, nonostante le coscienze smosse. E con il pensiero che ancora volava verso quei ragazzi in ogni parte d’Italia che vengono spinti via perché le loro lauree, il loro essere ricercatori abili, è apprezzato all’estero, qui è sottopagato, maltrattato. E agli altri, quelle donne, bimbi, uomini che arrivano su barconi in un’Europa che danzava quando cadde il muro di Berlino ed ora eleva muri e altri muri. Perché “noi non li vogliamo” perché forse qualcuno andrà a spolverare quei cartelli, a cambiarne una parola sola. Quelli che dicevano “non si affitta a meridionali”, e “meridionali” forse diventerà “negri” “mussulmani” o chissà che altro. O gli altri cartelli, quelli su cui era scritto “ni animaux ni etrangeres”. Qui non debbono entrare animali e stranieri. E gli unici stranieri erano italiani là, dove si scendeva in miniera.

Il mare nella mente, i luoghi del Salento dove ancora sbarcano migranti nella speranza di arricchirsi, come diceva Lireta, “contando fagioli”. Dove immigrati crepano fra le onde. Tre giorni fra emigrazioni ed immigrazioni. Così simili fra loro, L’Albània non si avvicina, neppure il Salento si avvicina a Bologna.   E penso che il tuo odio/amore verso questa terra sia così uguale a quello degli immigrati verso le loro da poterli sovrapporre. Penso che, forse, con queste tre giornate voi: tu, Chiarello, Paola Roscioli e tutti i collaboratori dell’evento, abbiate provato a fare un lavoro intenso per cancellare quella terra di mezzo, quel secondo mondo che manca nel dire quotidiano, abbiate voluto, almeno per un momento, far coincidere il primo al terzo mondo, farli convivere, farci capire che non abbiamo diritto di parlare di confini, di immaginare l’altro come il diverso, ma solo come Persona. Abbiate provato a smuovere coscienze!

Accidenti a te, Mario. Comunque Grazie!