di Massimo Grecuccio –

Sayit, no ideasbut in things.

William Carlos Williams

 

Benedetta Longo ha illustrato con dodici tavole (acquerelli su carta) il racconto La formula dell’alchimista (ad est dell’equatore, 2016) di Micole Imperiali.
Le dodici tavole, tutte dello stesso formato, più una tavola ulteriore, fuori formato (più piccola), che suggella la fine e che non compare nel libro, sono state esposte al Fondo Verri (via Santa Maria del Paradiso, Lecce), dal 22 dicembre 2016 al 15 gennaio 2017.

Prima di esaminare le illustrazioni, è opportuno partire dal racconto. La formula dell’alchimista narra, in un tempo storico sospeso e in un luogo geografico imprecisato, la ricerca – titanica – di “una formula per l’Amore”. Benché non definiti, del tempo e del luogo si potrebbe dire che sono precedenti l’era attuale del dominio della Scienza. L’osservazione della natura e degli uomini puntellano gli sforzi dell’alchimista (forse una sorta di archetipo del Padre). In fondo, l’alchimista è un messaggero che si muove in una dimensione simbolica: la sua ricerca è un viaggio iniziatico. L’esito del viaggio non è la formula, ma una morte doppia: fisica (nel racconto), spirituale (nell’allegoria). L’illuminazione, che non è rivelata, arriva appena prima, per essere presto scompigliata da “un vento primaverile” che porta l’imponderabilità del caso; ciò che era stato, con grande dedizione e per lungo tempo, selezionato e separato, ritorna a mescolarsi. La mancata rivelazione al mondo suggerisce che: la ricerca dura la vita intera e il traguardo coincide con la fine della vita; non c’è un già pronto da asporto; in tempi luoghi e modi diversi, gli uomini cercano,senza posae senza mai riuscire a prenderlo per intero, il segreto dell’amore e della felicità.

E vengo alle illustrazioni di Benedetta Longo.

Il testo precede le tavole e questa priorità introduce un elemento didascalico nel lavoro pittorico (e non potrebbe essere altrimenti). La favola è la base, mai trascurabile, e le illustrazioni sono – in primo luogo – al servizio della favola. Benedetta Longo, però, eccede il didascalico e introduce, nel percorso illustrativo, con inusuale sapienza compositiva e pennello leggero (gli acquerelli), un’idea forte che affianca il testo emancipandosi dallo stato di serva scialba. L’idea è l’uso di una scala cromatica per rappresentare, nelle cose, il viaggio iniziatico. L’affiancamento della favola con illustrazioni cucite con una scala di colori, però, non è solo un cambio di registro linguistico; è un dispositivo metaforico che – ad un tempo – propone una lettura singolare e libera ulteriori e altre potenzialità del testo. La coniugazione dei colori attiva un potenziale simbolico: sottolinea la salita progressiva della ricerca; rimanda alla tradizione culturale relativa alla percezione dei colori e all’associazione tra colori, emozioni e stati d’animo; permette di introdurre opposizioni evocative (il chiaro e lo scuro, il melanconico e il ben temperato…).

L’illustratrice, inoltre, in alcuni casi prende, nella ricerca di correlativi figurativi delle parole del testo, alcune libertà: introduce – proponendo soluzioni costruite per analogia, ma del tutto aliene dalla favola –figure retoriche visive che non sono il quadro delle corrispondenti figure retoriche testuali.
Per la rappresentazione iconografica dell’alchimista, Benedetta Longo attinge alla tradizione orientale, divenuta ormai cliché con la diffusione, alle nostre latitudini, delle pratiche di meditazione  e di yoga.

La prima tavola è una sintesi mirabile, nella semplicità figurativa, del cammino in salita; la caverna, il cui fondo non è piano, sembra un pozzo di anelli concentrici (che rimandano agli anelli che segnano le età degli alberi); un pozzo dalla sommità del quale entra un fascio di luce. Il tutto è rappresentato con toni tenui marroni e grigi. Solo il sole, esterno in alto a destra, è di un marrone più acceso che vira appena al rosso. Su un bordo del sole, più piccola ma ben visibile, c’è una luna grigia che in parte lo copre e in parte no (tra l’altro, nel libro, il sole e la luna sono riprodotti, estrapolati e ribaltati, sulla pagina di sinistra; e il riporto a sinistra di un particolare ribaltato dell’illustrazione a destra si ripete lungo il libro). La soglia delle illustrazioni evidenzia un tratto dello stile di Benedetta Longo, che si ripresenterà lungo la serie: la commistione di figurativo e di motivi – che definisco in prima istanza –astratto-figurativi; entrambi sono stilizzati. In particolare, qui, mi riferisco, per l’astratto-figurativo, ai raggi del sole, rappresentati con una corona di fiamme-foglie tutte uguali.
(Tali motivi forse possono leggersi come una sorta di porte iconiche: alludono, sia a una dimensione altra dal semplice quotidiano, sia all’attività speculativa.)

Così, ci sono due piste possibili da seguire lungo la successione delle illustrazioni di Benedetta Longo: quella cromatica e quella dei motivi astratto-figurativi.

Nella seconda tavola (e poi nella terza), alla gamma dei grigi e dei marroni si affiancano tenuissimi viola. Le potenzialità simboliche dei colori emergono con gradualità. Per l’astratto-decorativo, nella seconda, in cui il primo piano è preso da una specie di meridiana con le ore terrestri e celesti (i segni dello zodiaco), si trovano buttati sul tavolo dell’alchimista, di cui si vede la mano che impugna la penna (con pennino), due piccoli tondi che si toccano e in cui si ribalta il rapporto,di scala e simbolico, tra il sole e la luna grigia della prima figura: il tondo più grande è grigio, quello più piccolo è giallo.

Nella terza, compaiono, in primo piano a sinistra, la fronte e i grandi occhi, fissi e sgranati, dell’alchimista, dietro una fila di provette e alambicchi. Alla sua destra compaiono dei motivi spiraleggianti e su tutta la tavola – sparse – aleggiano alcune foglie-farfalle-occhi marroni, viola, rosseggianti.

Nella quarta, il centro è occupato dall’alchimista violaceo avvolto nel suo mantello, seduto in meditazione nella posizione del loto, fra tre mandala gradualmente crescenti; l’impulso di crescita è rappresentato con figure geometriche, triangoli quadrati cerchi, che ruotano – allargandosi – intorno a un centro. È bene evidente una spirale, costruita con una serie di figure geometriche (che rimandano alla tradizione matematica dell’antica Grecia). L’artista, qui, ha cercato di rappresentare un movimento – ad un tempo – meditativo ed espansivo.

Nella quinta tavola compaiono i colori azzurro e verde. Due mani accolgono e sostengono la terra; intorno il cielo e il mare e ai quattro angoli segni-simbolo di vario genere (la corona, la spada, la coppa, il bastone…). Al centro, sotto una foglia-punta, c’è un groviglio filamentoso (l’astratto-figurativo). Il mondo: natura cinta dalla cultura.Tutto è rotondo, in vortice e quieto.

La sesta illustrazione è squarciata diagonalmente dalla corda tesa dell’alchimista-funambolo (non c’è nel testo!), di cui vediamo solo un piede e che si lascia alle spalle un sole più vivo, dolci declivi e sbuffi di mare. E una corona, irta di figure pregne di simbolismo forse solo visuale, che assume di volta in volta i colori della luce solare, del mare, dell’erba. Probabilmente, nulla mostra, come il funambolo, la coincidenza – nell’istante – dell’equilibrio e del cammino.

La settima illustrazione, attraversata da un ramo fiorito, carico di fiori, di foglie e di un frutto tondo e arancione (che fa il paio con il sole pure presentenella figura), porta in sé le sfere-uovo (se ne contano quattro). Le stagioni della vita, legate dalla sinuosità dell’orizzonte: la promessa dell’uovo-grembo, la pienezza della maturità, la vertigine lontana del crepuscolo. E in più, la fissità contemplativa.

L’ottava tavola presenta un registro di due colori: un arancio melanconico e un blu cobalto – l’essenza della melanconia -. Entrambi sono declinati in diverse sfumature, ora più densi ora più sottili. Entrambi vestono un sole doppio: più grande l’arancio; più piccolo ma più avanti il blu. Il primo piano è dell’alchimista, anche lui investito dalle due essenze di colore, leggermente piegato a sinistra, gli occhi socchiusi, che tiene tra le mani un flauto traverso.

La musica celestiale del flauto, che non udiamo (il flauto, tra l’altro, è un’altra libertà figurativa di Benedetta Longo) ci conduce, con la nona tavola, nella dimensione archetipica dell’amore legata alla generazione del nuovo; ci sono, in tre sfere: la coppia uomo-donna, la Madre col bimbo, il Padre simbolico (l’alchimista). Una quarta sfera, più piccola, è il raccordo tra le altre tre; all’interno di essa si distingue una figura tripartita, in cui ogni ripartizione è, a sua volta, bipartita in due filamenti (questa figura è l’astratto-figurativo della tavola).
Non voglio insistere ulteriormente sulla simbologia del tre (che investe anche la sfera religiosa), a cui qui si allude. Come colui che guarda e legge, mi concedo una libertà interpretativa (di cui mi assumo la responsabilità). Questa libertà pertiene alla psicanalisi: “Perché, per ogni figlio, se la madre è l’origine, il padre è il mondo.” *La tavola è realizzata con un unico colore, il blu cobalto della illustrazione precedente. La tavolozza sapiente di Benedetta Longo declina questo colore in due sfumature: una più opaca, l’altra più brillante (smetto di essere analitico e non dico cosa è opaco e cosa brillante).
Il blu cobalto è scompigliato dal rosso! Il rosso più il blu, variamente combinati, sono il viola. Tale è il vento cromatico della tavola dieci. Il vento scompigliatore che azzera il lungo e costante lavorio dell’alchimista. L’alchimista è lì, nell’angolo a sinistra, che osserva – imperturbabile – la scena. Con serena accettazione.
Il viola assurge a una dimensione cosmica, in cui si sciolgono il principio e la fine dell’alchimista. È la tavola undici. Tutto è pronto per un nuovo inizio.

E siamo alla tavola dodici, che è poi la copertina del libro. L’alchimista (viola), le sue dimensioni sono confrontabili – tali e quali – a quelle della stella a noi più vicina, il sole (giallo). L’amore (la ricerca del) è la stella fissa.

Il cerchio illustrativo non si chiude così. Benedetta Longo ha dipinto un’ulteriore tavola, la numero tredici. Quest’ultima è sia un sigillo che un suggello. Contiene la firma come stile, raduna la varietà cromatica utilizzata nel racconto visuale, raccoglie l’arsenale simbolico messo in scena lungo il racconto con un’estrema sintesi iconica che richiama l’utero. Un utero grande. Il grande utero, però, non è solo: è avvolto da un filamento sequenziato, contenitivo e ordinatore; e contiene all’interno un altro filamento, spiraleggiante e cromaticamente cangiante. Il grande utero, inoltre, procede dal buio e si apre alla luce. Sulla sua bocca un’esplosione, e un’espansione, di lingue variamente colorate.
L’illustrazione rappresenta, oltre alla dualità buio-luce, anche la dualità maschile-femminile.

Con questa ultima tavola, fuori dal libro, è come se Benedetta Longoabbia aggiunto, o considerato, un altro finale. La formula dell’alchimista, così, è anche un tentativo di costruire un racconto delle origini, o della rinascita, nel tempo in cui la mitopoiesi ha preso altre vie, lontane dal racconto delle origini.
La tavola ha una bellezza sincretica: globalmente astratta, concreta nei particolari.

Massimo Grecuccio

*Citazione tratta da: Chi è la più cattiva del reame? di Laura Pigozzi, Editore: et al., 2012