di Antonio Stanca –

Abbiamo sempre vissuto nel castello è un romanzo della scrittrice americana Shirley Jackson. Lo scrisse nel 1962 ed ora Adelphi lo ha ristampato con la traduzione di Monica Pareschi.
La Jackson è nata a San Francisco nel 1916 ed è morta a North Bennington nel 1965. Aveva quarantanove anni e veniva da una grave esperienza in famiglia, il difficile rapporto con la madre, e nel matrimonio, l’incomprensione col marito. Aveva avuto quattro figli e neanche erano serviti a liberarla dai problemi che si erano accumulati e che l’avrebbero portata all’alcol, agli ansiolitici e alla morte. Avrebbe, tuttavia, scritto molte opere, tra romanzi e racconti, avrebbe trasferito nella scrittura le sue pene, ne avrebbe fatto motivo di letteratura, di arte. È riuscita bene, molti premi, molti riconoscimenti, molte traduzioni hanno avuto le sue narrazioni.

Aveva cominciato a scrivere quando era ancora all’Università, dove si era laureata in Giornalismo e Lingua e Letteratura Inglese. Allora aveva scritto su giornali universitari e solo nel 1941, a venticinque anni, aveva esordito nella narrativa riscuotendo subito un notevole successo. Aveva continuato e col romanzo breve L’incubo di Hill House, del 1959, si era confermata come una delle migliori scrittrici americane contemporanee. La scioltezza della lingua l’avrebbe fatta riconoscere con facilità ed avrebbe contribuito anche l’impegno assunto e perseguitocirca il tema della donna. Non sarebbe stata solo la figlia, la moglie, la madre offesa a trasferirsi nella sua scrittura ma anche quella donna americana che negli anni ’50 viveva in condizioni di piena sudditanza rispetto all’uomo, di privazione, di esclusione dalla vita pubblica, sociale, di condanna ad uno stato di obbedienza, di silenzio, di rassegnazione. In un contesto diffuso rientrava il caso della Jackson e di entrambi sarebbe stata la scrittrice, di lei e di altre donne avrebbe scritto, di donne in pena, che cercavano di superare la propria condizione, di realizzare i propri sogni, di andare oltre quanto la vita aveva loro riservato. Sarebbero state sconfitte, non ce l’avrebbero fatta ma lei avrebbe raccolto quelle sconfitte, avrebbe mostrato quelle donne, ne avrebbe fatto la sua opera. Esempi, simboli sarebbero diventate di una condizione umana che viveva drammaticamente, tragicamente e che come ogni dramma aveva trovato il suo cantore.

Un altro dramma, un’altra tragedia contiene Abbiamo sempre vissuto nel castello. Di altre donne dice, di due sorelle, Constance, quasi trentenne, e Mary Katherine, ancora ragazza. Sono le protagoniste e insieme allo zio Julian, già da tempo su una sedia a rotelle, vivono in una villa al centro di una tenuta poco distante dal paese. Era stata la proprietà dei genitori ma morti sono questi insieme al piccolo Thomas e alla cognata Dorothy perché avvelenati dal cianuro messo nello zucchero usato per i mirtilli serviti a tavola. Salvi erano usciti Constance, che non usava lo zucchero, Mary, che per punizione era stata mandata senza cena nella sua stanza, e zio Julian, che aveva usato poco zucchero e aveva avuto danni minori, la sedia a rotelle. Dell’estesa azione omicida verrà sospettata Constance ma il processo, che ne era seguito, l’avrebbe assolta per mancanza di prove e la situazione sarebbe rimasta per sempre sospesa. Le due sorelle avrebbero ordinato la loro vita nella villa: Mary avrebbe badato alle spese da fare in paese, Constance alla cucina, al giardino, all’orto e, insieme a Mary, alle pulizie richieste da una casa così grande. Lo zio era affidato alle cure di Constance. Da tempo ormai si procedeva in questo modo e soltanto di sfuggita si accennava alla grave circostanza successa. Di questa, però, non si era ancora finito di parlare presso i vicini e in paese dove Mary era guardata con sospetto mentre faceva la spesa. Quasi con nessuno si frequentavano le sorelle né ricevevano visite. In particolare Constance non si faceva vedere, temeva di offrire l’occasione perché si parlasse della sua famiglia distrutta e della sua colpa celata. La stessa loro casa era considerata un luogo da evitare per quanto di orrendo vi era successo e di pauroso ne era conseguito. Ad aggravare la situazione sarebbe venuto un loro cugino, Charles, con l’intenzione di soggiornare nella villa e aiutare le sorelle a dimenticare, a stare meglio. La sua condotta, però, risulterà invadente, arrogante, Mary non la sopporterà, non sopporterà che Charles voglia rimanere a lungo in casa e farà di tutto per evitarlo. Lo farà fino al punto da provocare un vasto incendio che distruggerà la parte superiore della villa e danneggerà gravemente il resto. Qui, nelle stanze rimaste, troveranno rifugio Constance e Mary, qui si nasconderanno agli occhi di tutti, eviteranno anche i pochi rapporti precedenti. Dai loro discorsi si saprà che era stata Mary ad avvelenare i mirtilli prima di isolarsi nella sua stanza, che insieme a Constance lo avevano pensato, che gravissima era la situazione da loro sofferta in casa e gravissimo il loro gesto, che d’allora tanti erano stati i misteri che, presso i vicini e gli abitanti del paese, si erano addensati circa la loro vita passata e presente, circa la loro casa, da essere diventata quella oggetto di pubblica condanna e questa luogo del quale aver paura. L’incendio ultimo sarà visto come una punizione divina: sole per sempre rimarranno le sorelle, della carità di poche buone persone vivranno, sconfitte, rifiutate, temute saranno dopo che avevano eliminato quei familiari che impedivano loro di essere bambine, di essere ragazze, di essere donne. Avevano voluto liberarsi di quanto le opprimeva ma altro era sopraggiunto. Così era stato e così sarebbe stato per altre donne della Jackson, per altre protagoniste dei suoi romanzi o racconti. I loro casi ha rappresentato, a tutti li ha fatti vedere, scrittrice è diventata con essi.

Antonio Stanca