RITO RELIGIOSO E RITO GIURIDICO
di Pietro Maiorca –
Seconda parte
In tempi molto lontani la morale pubblica era intrisa di un forte significato religioso, per cui ogni idea di bene, di ordine e di giustizia scaturiva dalla conoscenza misteriosa di una potenza soprannaturale che dominava e penetrava tutto il mondo animato e inanimato. Questa diffusa religiosità toccava il suo culmine nel momento di contatto con le forze invisibili dell’universo, cioè nell’atto del rito col quale si evocava la divinità affinché rendesse sacra la vicenda umana.
Strumento del rito era la parola, la cui “capacità di fare” era ben nota in tutta l’antichità. È la potenza della parola che, pronunciata in forma solenne, realizza tutto, crea la realtà. Non a caso è dalla forza creatrice della parola che il dio di Abramo fa nascere il cielo e la terra e ogni forma di vita: è bastato che dicesse “sia fatta la luce” perché la luce esplodesse con tutta la sua carica vitale, è bastato che alzasse un dito e pronunciasse poche parole perché tutto venisse creato dal nulla.
Similmente alla parola, il nome di una cosa non è soltanto una semplice modulazione della voce atta a designare ciò di cui si parla, ma è anche la cosa stessa evocata dal suo nome, quel nome che le appartiene e la fa essere quella che è: conoscere il nome di una cosa equivale ad ammetterne l’esistenza, così come darle il nome equivale a crearla.
Ogni cosa appare così misteriosamente e indissolubilmente legata al suo nome che lo stesso nome contiene la potenza o l’anima della cosa nominata. Guai a nominare il demonio: può succedere che questi risponda al richiamo, fissi la sua dimora tra le mura domestiche e vi si aggiri furtivamente seminando discordia e ogni sorta di malefiche tentazioni. Guai a nominare un organo del corpo la cui malattia ha portato a morte un conoscente, perché si corre il rischio di incappare nella stessa disgrazia; attenzione anche ai gesti quando si adoperano al posto delle parole, perciò guai ad indicare l’organo in questione toccandosi il corpo nella parte corrispondente, perché anche questo può essere sufficiente ad “attirare” la stessa fatale malattia.
È sulla capacità costrittiva della parola che le preghiere, inizialmente, si basavano per poter svolgere la loro funzione. Prima che assumessero il valore di devote suppliche, le preghiere erano soprattutto degli atti impositivi, sovrapponibili alle formule magiche: era sufficiente pronunciare il nome del dio e recitare certe parole perché il dio fosse costretto ad intervenire. Tra le preghiere e il risultato che ne consegue non vi è, infatti, un rapporto di tipo facoltativo, bensì di necessità: il dio interviene non perché decide di farlo dopo aver ascoltato le preghiere, ma perché dalle preghiere è come “trascinato” e costretto ad intervenire.
In tutto il mondo antico, il sottofondo magico del rito religioso consisteva nella convinzione che la forza insita nella parola avesse la capacità di costringere gli dei a sottomettersi, a venire in potere di chi li invocava. Per rivolgersi al dio è indispensabile conoscerne esattamente il nome: è “col” e “nel” nome che la divinità si rivela ai comuni mortali: chi sa il nome del dio ha il dio stesso in suo potere.
La recita di certe formule, condivisa da diverse genti, rappresenta un esempio di rituale in cui religione e superstizione figurano in ugual misura. Rivolte al Cristo, alla Madonna e ai Santi, queste formule si usavano (e forse qualcuno le usa ancora) per ottenere ogni tipo di grazia o di favore: dalla cessazione di un mal di pancia alla buona riuscita di un progetto omicida. Erano preghiere e allo stesso tempo formule di scongiuro, per cui non di rado si accompagnavano a precise gestualità.
Erano formule che non potevano essere trasmesse o apprese se non in un determinato periodo dell’anno (più precisamente in quel breve lasso di tempo compreso tra il Natale e l’Epifania); recitate impropriamente non solo perdevano ogni efficacia, ma assumevano il senso di bestemmie, giacché erano “parole di Dio” e, al pari del “nome di Dio”, non dovevano essere pronunciate invano. E affinché potessero sprigionare tutta la loro forza, dovevano accompagnarsi alla massima gravità e compostezza: in forma solenne, dunque, ovverossia rituale (derivando il termine “solenne” dal latino solemnis, contrazione di sollus annus, col significato originario di “straordinario, che si ripete una volta all’ anno, che ricorre con cadenza periodica”).
L’alone magico che gravitava costantemente in campo religioso, non mancava di far sentire il suo peso anche in campo giuridico. Col rito giuridico, infatti, si rendeva la realtà visibile specchio dell’ordine divino e si stabiliva ciò che era lecito secondo il giudizio divino e ciò che non lo era. Da qui la nascita del diritto, inteso non già come imposizione arbitraria di determinate regole, ma come riflesso della volontà divina nella coscienza degli uomini: ricompare così il concetto secondo cui la morale è più antica della legge e del governo, anzi, ne è la legittima progenitrice.
Nel rito giuridico si celebra, così come in quello religioso, l’apoteosi del nome e della parola pronunciati in forma solenne: ciò risulta ben evidente in tutto il diritto romano arcaico, cui siamo tutt’ora legati da un lungo quanto resistente cordone ombelicale.
Anche nella tradizione giuridica romana, infatti, e soprattutto in questa, il nome è la “sostanza” della cosa, la sua ragione di essere, la sua causa; la cosa e il suo nome si immedesimano l’una nell’altro fino a fondersi in un tutt’uno indivisibile, al punto che nominare una cosa equivale a toccarla. Parallelamente, la parola è parola di potenza, creatrice e ordinatrice del mondo; per mezzo della parola si realizza l’ordine voluto dagli dei (più precisamente, l’ordine degli dei), perciò il diritto romano altro non è se non diritto divino.
Tanto più se si considera che in latino il numen è la divinità, ma anche il gesto di assenso, il “cenno fatto col capo” (dal verbo nùere, da cui il nostro “annuire”), così come i nùmina sono i fenomeni (segni di approvazione o disapprovazione) con i quali la divinità manifesta il suo volere. È impossibile non notare la similitudine col termine nomen (il nome)col quale, nel rito giuridico romano, si fa riferimento alla “sostanza” del nùmen, confermando ancora una volta l’identità tra il nome e la cosa che questo indica.
E che dire della parola intesa nel senso di comando? Anche il dio cristiano non si identificava, così come si identifica, con la sua parola? Cos’è il Verbo se non la parola di Dio, la sua volontà? Il Verbo è nel mondo cristiano ciò che il Fas è in quello giuridico-religioso degli antichi romani: il Fas è il diritto divino, ciò che gli dei dicono di fare per bocca del magistrato (il pontifex) il quale stabilisce, dopo opportune consultazioni, ciò che è lecito perché voluto dagli dei (Fas est) e ciò che non lo è (Fas non est). Vale la pena di aggiungere che il termine Fas discende dall’indoeuropeo dove se ne rinviene, se pur con qualche discordanza interpretativa, la radice originaria che ne conferma il significato appena attribuitogli: che derivi (secondo quanto sostengono alcuni) dalla radice bha tramite il latino fari (parlare) oppure (secondo il punto di vista di altri) dalla radice dhe tramite il latino fàcere (fare, disporre), il concetto finale è sempre lo stesso: Fas è la parola divina, la volontà divina, ciò che gli dei dicono di fare.
Il diritto, così come noi oggi lo conosciamo, ha perso ogni traccia della sua connotazione originale; a questa, tuttavia, si può risalire grazie alla ricerca linguistica: è infatti la solita matrice indoeuropea che ne svela la natura magico-religiosa e fornisce, allo stesso tempo, la chiave interpretativa del rapporto che intercorre tra la parola e il diritto divino.
Il termine “diritto” (ciò che è rettilineo, che non è storto, quindi ciò che è giusto) si è da tempo sostituito al termine latino ius, diretto discendente del sanscrito yaos: quest’ultimo sta ad indicare lo stato di conformità richiesto dalla pratica del culto, ovvero la condizione necessaria affinché il rito religioso possa svolgersi. Lo ius (che conserva lo stesso senso del primordiale yaos) non può rendersi in nessun altro modo se non con la parola che è l’atto essenziale di ogni pratica rituale; trasportato in ambito giuridico, lo ius è pertanto la “formula di normalità” che prescrive ciò a cui ci si deve attenere (le nozze, ad esempio, si dicono “giuste” (iuxtae nuptiae)non quando c’è il consenso dei coniugi, ma, più propriamente, quando sono celebrate secondo le regole). È in questo, cioè nella capacità che ha la parola di “mettere a norma” le azioni degli uomini, rendendole “conformi” al disegno divino, che risiede l’intimo significato della nozione di “diritto” nella Roma arcaica.
Siamo al trionfo del dire e della parola: non è il “fare” ciò che è costitutivo del diritto, ma sempre il “pronunciare con autorità”. Il carattere autoritario del latino dìcere (dire) deriva anch’esso dal sanscrito dis che ha il significato di “dirigere” (da cui directum e “diritto”), di indicare, di dire con autorità di parola ciò che deve essere fatto. Sono famosi, a tal proposito, i tre verbi latini do, dico, addico (dò, enuncio, aggiudico) con cui il magistrato romano pone fine ad una contesa, fissa e legittima in maniera solenne (rituale) un determinato stato di cose. Ius e dìcere sono i cardini su cui ruota tutta la terminologia giurisprudenziale. Lo iudex è il giudice, colui che può ius dicere , cioè dire con autorità; così come diem dìcere è fissare il giorno per la causa, multam dìcere è comminare un’ammenda, sententiam dìcere è pronunciare una sentenza, iurare è giurare ovvero pronunciare una formula, lo ius iurandum è il giuramento (letteralmente è la formula da formulare: difatti colui che giura deve ripetere parola per parola la formula che gli viene imposta), e via….dicendo con iudicare, iudicium, iuris dictis, ecc.ecc..
La parola, insomma, è la base fondamentale del rito con cui si stabilisce l’ordine degli dei. Non è un caso che il termine “rito” discenda dalla radice indoeuropea Rta che indica l’ordine universale che regna su tutto e che regola non solo il movimento degli astri e il succedersi delle stagioni, ma anche i rapporti degli uomini con gli dei e quelli degli uomini tra di loro. Il Rta è il principio informatore (morale, giuridico, religioso) cui nessuno può sottrarsi e in assenza del quale si sprofonda nel caos.
Ecco altri elementi di natura linguistica che si affacciano a testimoniare in favore dello stretto rapporto esistente tra il dire e il comandamento divino. Il significato che noi oggi diamo alla parola “caos” (disordine, mescolanza, confusione) non è quello originario, così come non lo è quello che attribuiamo al suo contrapposto “cosmo” (ordine celeste, universo) né i due termini appaiono, in origine, in rapporto tra di loro. Il termine caos discende dalla radice indoeuropea kha e fa parte di una serie di parole collegate al greco kasko che ha il significato di “aprirsi, schiudersi”; ciò autorizza a supporre che il suo significato originario non sia tanto quello di “disordine”, quanto quello di “apertura” (quell’apertura che Esiodo, nella sua Teogonia, pone all’origine di ogni generazione di dei, di uomini e di mondi: una specie di big-bang da cui tutto sarebbe venuto fuori). Anche il termine “cosmo” deriva dall’indoeuropeo, ma la sua radice kens non sta ad indicare l’ordine cosmico, bensì l’atto di “decretare, annunciare con autorità, proclamare solennemente una verità che fa legge”. Ma non basta. Da kens deriva anche il latino censeo col significato di “stimare, giudicare riguardo al valore o al merito”, per cui il census è la “valutazione della fortuna del singolo individuo, l’assegnazione del suo posto nella società” (da cui censo e censimento), mentre il censor è il magistrato che, tra gli altri compiti, ha pure quello di sorvegliare sui costumi e di reprimere gli eccessi di qualsiasi natura ovvero di porvi una “censura” e di “decretarne” la non conformità al volere divino.
Ritorniamo, per chiudere questa parentesi (su cui ci siamo dilungati più del dovuto, abusando della pazienza di chi legge), al rito e alla sua funzione in campo giuridico presso gli antichi romani. Ogni volta che l’ordine divino viene infranto si compromette il rapporto con la divinità, si regredisce al more ferarum, cioè allo “stato di natura” proprio delle bestie: in questi casi, perciò, bisogna uscire dal caos e riappacificarsi con gli dei, e ciò si fa con un nuovo “procedimento”, vale a dire con un nuovo rito che ha il compito di ripristinare l’ordine violato, di ristabilire la pax deorum, e quindi la pace terrena.
Lascia un commento
Devi essere connesso per inviare un commento.