“IL SILENZIO DELLA COLLINA” di ALESSANDRO PERISSINOTTO
La storia di Maria Teresa Novara

di Antonio Stanca –

Allegato al Corriere della Sera, su licenza Mondadori, è uscito il romanzo Il silenzio della collina di Alessandro Perissinotto. È uno dei titoli della collana “True Crime” promossa dal giornale. L’opera risale al 2019 e allora le era stato assegnato il Premio Internazionale Bottari Lattes Grinzane. Altre volte con altre opere Perissinotto ha avuto successo e riconoscimenti. 

Nato a Torino nel 1964, qui si era laureato in Lettere nel 1992 e insieme al professore della tesi, Caprettini, si era dedicato allo studio delle favole, delle loro figure, dei loro significati. Avevano pubblicato il Dizionario della fiaba. Anche il sistema multimediale era rientrato tra i primi interessi del Perissinotto insieme alla saggistica e a interventi di carattere didattico. Ora insegna Storytelling all’Università di Torino. Come scrittore ha cominciato a farsi conoscere nel 1997, quando comparve L’anno che uccisero Rosetta, il primo dei tre gialli storici che avrebbero anticipato la sua maniera di scrivere. Dalla realtà, dalla storia avrebbe attinto senza rimanere nella contingenza, nella cronaca ma per ottenere significati superiori, per raggiungere una dimensione ideale. Con Perissinotto la storia sarebbe diventata letteratura, dalla vita si sarebbe passati all’arte, dal particolare all’universale, dal quotidiano all’eterno. Sarebbe stato sempre così nella sua produzione anche se aspetti diversi avrebbe assunto. Avrebbe sempre pensato Perissinotto a muovere dalla vita, dalla più attuale ma anche dalla più remota, da suoi eventi eccezionali, di ripercorrerli, chiarirli e far emergere verità, significati utili, ricavare principi, valori necessari, fondamentali. È stato come voler continuare da scrittore con gli intenti didattici propri del primissimo Perissinotto. Esempi di bene, di virtù vuole ricavare dalla storia recente e da quella passata. Vuole indagare in esse, fare dei loro personaggi vuole gli investigatori di quanto è successo soprattutto se si tratta di casi particolari, di quelli che fanno clamore ma non sono mai completamente chiariti. Da qui il tono, l’andamento da romanzo poliziesco che spesso le opere di questo scrittore assumono. Alla ricerca di quanto è rimasto nascosto, non detto, si muove Perissinotto nelle sue storie, tramite i loro interpreti. Il silenzio della collina è un’ulteriore conferma di questa maniera.

Qui si dice di una vicenda accaduta tra il 1968 e il 1969 nei pressi di Alba, Langhe piemontesi, dove tanti sono i paesi, i villaggi, tante le città, le cascine. Una vicenda drammatica, tragica, quella di Maria Teresa Novara, una bambina di tredici anni rapita da due uomini mentre dormiva nella casa dei genitori, rinchiusa nel sotterraneo di una cascina, legata in modo da non avere molto spazio a disposizione, “usata” dai rapitori per soddisfare le proprie esigenze e, dietro compenso, anche quelle di altri maniaci del sesso. Arrestati i rapitori quando erano lontani dalla cascina, Maria Teresa rimane sola e senza possibilità di contatti con l’esterno, non può chiedere aiuto anche perché scomparso era pure l’uomo incaricato di procurarle il necessario per nutrirsi e per altri bisogni. Morirà di fame e di stenti. Morirà legata e sarà scoperta molto tempo dopo. Passato, però, quel periodo non se ne parlerà più né presso i giornali né in paese, ci si dimenticherà di lei quasi si avesse paura a ricordarla tanto crudele era stata la sua fine.

Passerà molto tempo, quasi mezzo secolo, e ad Alba arriverà Domenico Boschis. Aveva cinquant’anni, se n’era andato anni prima, era diventato un noto attore televisivo ed era venuto perché il padre Bartolomeo, ricoverato presso un hospice, era in fin di vita. Tra i due non c’era mai stato un buon rapporto, del carattere del padre aveva sofferto anche la madre che lo aveva lasciato per un altro uomo. Sorpreso rimane ora Domenico nel vedere ridotta allo stremo quella che era stata una figura forte, autoritaria, cattiva. Suo padre riesce appena ad inghiottire il cibo, ad aprire gli occhi, a muovere le braccia. Non parla, emette solo qualche sillaba e piange quasi in continuazione. Tra quelle sillabe ritorna spesso “…zza”. Il figlio penserà che voglia dire “ragazza”, che voglia parlare di una ragazza, che lo voglia fare in fretta prima di morire tante sono le volte che pronuncia il monosillabo. Sempre più incuriosito, interessato diventerà Domenico durante le giornate trascorse ad assistere il padre e ad ascoltare le sue parole spezzate mentre il personale medico provvede ai suoi bisogni.

Domenico è un bell’uomo, il suo lavoro in televisione gli permette di essere riconosciuto e di ricevere parole di ammirazione in qualunque posto si trovi tra quelle colline, quelle città, quelle cascine, ambienti della sua infanzia e adolescenza. Ritrova Caterina, suo primo amore, e Umberto, amici d’infanzia, si frequenta con loro e con altre persone. Riscopre i suoi posti, le sue strade, le sue case, le sue piazze, s’innamora dell’infermiera Gilda. Parla a lungo con Caterina, le chiede cosa può significare quella “…zza” di suo padre sempre ripetuta finché non arriva a stabilire con certezza che vuol dire “ragazza”, che quella ragazza era la Maria Teresa Novara rapita, usata e lasciata morire cinquanta anni prima, che del suo caso si era saputo, si era detto ovunque ad Alba e dintorni, ma ben presto si era taciuto e dopo nessuno aveva pensato a chiarire, a fare giustizia. Era finito col diventare uno di quei segreti, di quei misteri propri di certi posti. Scoprirà pure Domenico che della ragazza, della sua prigionia, del suo caso, sapevano insieme a persone influenti altre meno influenti e che tra queste c’era stato suo padre. Nemmeno queste, però, avevano provveduto ad un qualche aiuto, a salvare la ragazza ma della sua condizione alcune avevano pure approfittato. C’era stato un complotto. Sconvolto, inorridito sarà Domenico di fronte a verità tanto gravi e tanto taciute, tanto a lungo tenute nascoste da far dimenticare l’accaduto. Non riuscirà a capacitarsi, la sua era stata una terribile scoperta e con lui Perissinotto riesce ancora una volta nell’impresa, riesce, cioè, a mostrare come il male, la violenza, la crudeltà era stata possibile anche nella vita quotidiana, tra persone comuni e in posti apparentemente tranquilli. A mostrare come neppure questi fossero sfuggiti alla contaminazione, alla corruzione, alla violenza proprie dei tempi moderni, come non ci sia differenza tra i loro e i pericolosi ambienti delle metropoli, come “il silenzio di quelle colline” sia capace di far passare inosservati i più gravi misfatti.

Abilissimo è stato lo scrittore a muovere da realtà tra le più umili e costruire una narrazione così ben articolata, composta nelle sue parti, sicura negli obiettivi, capace di risultati. Una narrazione che si è assunta la responsabilità di denunciare, riscattare, vendicare quanto successo, di fare giustizia, di valere come un richiamo, una sollecitazione a rifiutare il male e perseguire il bene. Alla condanna del fenomeno, quanto mai moderno, del femminicidio giunge Perissinotto partendo da una vecchia storia, un’operazione di edificazione morale, un appello di carattere sociale compie, a pensare, riflettere invita, a considerare quanto sia antico questo male, questa avversione nei riguardi delle donne, come faccia parte della natura maschile, come ancora non sia stata debellata. Ad agire perché si finisca con certi comportamenti, si ascoltino le voci dell’anima, dello spirito, si riscopra la coscienza, esorta lo scrittore. Ad un ammodernamento, un miglioramento dei modi di pensare, di fare, dei costumi individuali, sociali, tende con questa e con le altre sue opere Perissinotto. Un compito di carattere morale, quasi religioso esse svolgono, una voce che supera le parti diventano, un’idea che sta sopra la realtà, che non sopporta quanto di male ancora la percorre.

Per essere moderni basterebbe essere più buoni!

Antonio Stanca