di Antonio Stanca –

Ottessa Moshfegh è una scrittrice e saggista americana. E’ nata a Boston nel 1981 da padre iraniano e madre croata. Il fratello minore è morto prematuramente nel 2018. I genitori, separati, hanno insegnato entrambi al New England Conservatory di Newton, Massachusetts, che la piccola Ottessa ha frequentato e dove già da bambina ha imparato a suonare il pianoforte e il clarinetto. Dopo l’adolescenza i suoi interessi si rivolgeranno alla letteratura, alla scrittura. Nel 1999 si iscriverà all’Università, si laureerà, insegnerà a New York e poi, insieme al suo compagno, si trasferirà in Cina. Qui entrambi insegneranno Inglese in un’Università privata, gestiranno un locale pubblico ma poco durerà il loro rapporto e nel 2005 Ottessa tornerà a New York dove lavorerà presso una casa editrice. Non accetta, però, l’ambiente, la città di New York, e riprende a studiare. Frequenta la Brown University, consegue altri titoli e intanto ha cominciato a scrivere racconti e il famoso romanzo breve McGlue, al quale tanto tempo e tante attenzioni dedicherà. Lo pubblicherà nel 2014 quando alcuni suoi racconti erano già comparsi su riviste specializzate. Molti altri ne scriverà, quello del racconto sarà il genere letterario da lei preferito. Il secondo romanzo, Eileen, uscirà nel 2015, il terzo, Il mio anno di riposo e oblio, nel 2018 e l’ultimo, La morte in mano, nel 2020. Anche saggi scriverà ma alla narrativa tenderà soprattutto e ad essa andranno i maggiori riconoscimenti. Dal 2016 vive col marito a Los Angeles.

La Moshfegh ha molto amato la lettura di autori moderni e contemporanei, americani e stranieri, da qui le è venuta l’idea di scrivere. Diventerà scrittrice della realtà più umile, della vita più ordinaria, mostrerà, descriverà persone comuni con problemi di salute fisica o mentale, ossessionate da sensi di colpa, da torti subiti, da incomprensioni, esclusioni, da povertà, malattia, morte. Persone comuni e non eccezionali saranno, in case scadenti, scarse di luce, di igiene e di altre necessità vivranno e a quella misera realtà aderirà il linguaggio della scrittrice, con quelle gravi situazioni s’identificherà, osceno, crudo a volte sarà. Di quanto non si sa o si nasconde vuole scrivere la Moshfegh, dei drammi che si vivono in ambienti quotidiani. Nelle donne crede di poter indicare le maggiori vittime del fenomeno e soprattutto donne sono le protagoniste delle sue narrazioni. Così succede pure in Il mio anno di riposo e oblio, che lo scorso Maggio ha avuto una seconda edizione nella “Universale Economica” della Feltrinelli. La traduzione è di Gioia Guerzoni. E’ stato uno dei migliori libri del 2018.

L’ambiente è quello della New York dell’inizio del Terzo Millennio. In un appartamento scarsamente arredato e curato di un condominio presso l’Upper East Side, Manhattan, vive una giovane e bella donna che da poco si è laureata alla Columbia University e lavora in una nota galleria d’arte. Ha perso i genitori e della loro casa, dei loro risparmi è l’unica erede. Potrebbe vivere senza problemi ma ha un difficile rapporto sentimentale con Trevor, un vecchio compagno del college che ricopre un incarico importante e che non la tratta come una fidanzata, non la fa sentire sicura, le sfugge, la fa soffrire. Soffre pure della perdita del padre al quale era stata molto legata. Privata si sente di quanto aveva bisogno, confusa, smarrita fino a sbagliare anche nel posto di lavoro. Sarà assalita da molti dubbi, perseguitata da molte paure, incapace crederà di essere diventata e per recuperare le condizioni di prima penserà sia necessario interrompere ogni contatto, isolarsi per un anno nel suo appartamento, allontanarsi quanto più possibile, fuggire anche mentalmente dalla vita, dagli altri, dai ricordi. Un sonno prolungato le sembrerà il modo migliore per ottenere tanto. Negli intervalli i programmi televisivi, i film al videoregistratore, i cibi da consumare sarebbero stati gli unici svaghi, gli acquisti da fare le sole brevissime uscite.  Farà così, inizierà il suo isolamento, cercherà nel sonno l’oblio, dormirà per molto tempo grazie ai farmaci sempre più forti che le prescriverà la sua psichiatra, dormirà tanto a lungo da perdere la cognizione dell’ora, del tempo, delle stagioni. Non distinguerà tra il sogno e la visione, il ricordo e l’allucinazione, il sonno e la veglia, il giorno e la notte. Non smetterà, però, di cercare il sonno, lo vedrà come la soluzione dei problemi che l’angosciano. E’ convinta che dopo un anno tornerà quella di prima, cioè bella, sicura, attenta.

Anche la sua amica Reva è ormai in preda ad uno stato d’animo sempre inquieto, sempre agitato. E’ torturata dal pensiero di perdere la sua giovinezza, la sua bellezza, ricorre a tanti rimedi per salvarle ma nonostante tutto il suo uomo l’ha lasciata in maniera definitiva, l’ha pure fatta trasferire, era il suo capo. Reva va a trovare l’amica nell’appartamento perché vuole parlarle di quanto le è successo e ancora le succede. Vuole la sua compassione. Crede così di liberarsi dello sconforto ma non ci riesce. Il suo stato si aggraverà, si suiciderà.

Anche la donna dell’appartamento era stata lasciata dal suo uomo ma aveva sperato che il riposo al quale si era votata la potesse liberare pure da questo dolore.

Non una ma due sono le donne in pena nel romanzo della Moshfegh, due i casi di vita disperata che si sono creati in ambienti ordinari, tra persone comuni, due le soluzioni che hanno avuto. Parlarne, scriverne sembra sia diventato per la scrittrice un impegno inevitabile, un dovere superiore ad ogni altro, una volontà, una convinzione che non ammette debolezze, una responsabilità alla quale non può sottrarsi.

Difficile, movimentata è stata la sua vita, in molti posti, tra molte persone si è trovata, molte esperienze ha avuto, inquieta, turbata è diventata e così le sue protagoniste.

Per la sua via è giunta alla sua scrittura!

                                                                                                                Antonio Stanca