Morale e Diritto
di Pietro Maiorca
Di solito quando si parla di morale il pensiero corre immediatamente all’idea di coscienza ovvero a quella facoltà della mente umana che permette ad ogni individuo di darsi dei valori in base ai quali indirizzare i suoi comportamenti. Se però andiamo ad analizzare l’etimologia di “morale” o di “etica” scopriamo che il significato originario di questi termini è quello di “abitudine, consuetudine”, sia del primo, derivato dal latino (mos, moris) che del secondo, derivato dal greco (ethos, ethikòs).
Risiedono nelle consuetudini, evidentemente, i valori cui ogni individuo si ispira per regolare la propria condotta: rifarsi a questi valori significa venire a conoscenza (cioè aver coscienza) di ciò che è bene e ciò che è male, giusto e ingiusto, lecito e illecito, onesto e disonesto; chi vive fuori dalle consuetudini è uno scostumato e un immorale, cioè uno “scoscienziato” perché non riconosce il bene dal male. Consuetudine, morale e coscienza finiscono così per convergere in un’unica direzione, identificandosi in un medesimo ordine di cose e innescando, allo stesso tempo, una serie infinita di laceranti interrogativi.
Anche se per “coscienza” si intende per lo più la “coscienza individuale”, i campi ai quali la coscienza si applica sono molteplici e ciò rappresenta soltanto una delle complesse problematiche di cui la coscienza stessa è portatrice. È vero che esiste una coscienza privata relativa all’individuo, ma è anche vero che ne esiste una pubblica relativa alla comunità, così come ne esiste una religiosa (ad es. la morale cristiana) e una professionale (ad es. la deontologia medica). Né si può dire che questa molteplicità di coscienze non sia autentica, anzi, ciascuna di esse è legittima e sovrana per quel che le compete: ogni pratica dell’esistenza, infatti, implica un principio regolatore ad essa pertinente, grazie al quale si attualizza in coerenza con la propria specifica struttura; in altri termini, esistono tante morali quante sono le pratiche dell’esistenza.
Ma allora, com’è possibile conoscere la verità se questa viene frammentata in tante parti, ognuna delle quali, per di più, rivendica a sé la supremazia sulle altre? Come può la coscienza individuale (soggettiva e relativa) combaciare con quella pubblica (oggettiva e assoluta)? Non esiste, a riguardo, una risposta univoca ed esauriente; è un fatto, però, che ogni aspetto della coesistenza – per quanto differenziato o specializzato – tende sempre ad uniformarsi ad un unico principio informatore ; affinché la coscienza (in quanto conoscenza) possa stabilire ciò che è bene e ciò che è male ed indicare il fine ultimo dell’esperienza umana, allora, pur presentandosi in forme diverse, essa deve inscriversi in un sistema che, fissando dei valori di umanità uguali per tutti, li sottragga al libero arbitrio e conferisca loro un carattere di vincolo universale.
Che le consuetudini cambino, è un dato di fatto; ciò vuol dire che ogni nuova consuetudine si legittima di per sé, ma, pur affermando la sua specificità, non può prescindere da quella che l’ha preceduta (la stessa morale cristiana, ad esempio, non sarebbe potuta nascere se non avesse potuto innestarsi su modelli preesistenti, sviluppandoli o comunque modificandoli). Consuetudini, usi e costumi sono espressioni tipiche del genere umano da cui nessuno può prescindere né allontanarsene senza sentirsi sminuito nella sua dignità. Non sarebbe pertanto sbagliato se all’antico aforisma “ubi societas ibi jus” – secondo il quale dove c’è una società c’è un diritto – se ne affiancasse un altro secondo il quale laddove c’è una società ci deve essere anche una morale: “ubi societas ibi mos”.
Se delicato è il rapporto tra morale individuale e morale pubblica, quello che intercorre tra queste e le leggi dello stato è addirittura angoscioso.
Diritto e morale sono due sistemi normativi distinti e allo stesso tempo connessi perché, pur godendo ciascuno di una specificità intrinseca, operano in campi che si sovrappongono in larga parte, perciò dal loro confronto non può che derivarne una competizione tesa all’affermazione delle rispettive priorità. Discendono da qui i tremendi conflitti che assillano l’esistenza e che qualsiasi tentativo volto a risolverli non solo non raggiunge lo scopo, ma li rende ancor più drammatici.
Pensare il diritto indipendente dalla morale è tanto difficile quanto ammetterne la sua dipendenza. Non è raro, infatti, che una norma imposta sul piano giuridico sia ripudiata in nome della morale; la storia è piena di casi in cui si sono rifiutati i dettami della legge per seguire quelli della coscienza, anche quando si aveva la consapevolezza di andare incontro ad una pena che, com’è successo tante volte, è stata persino quella di morte. Sono questi i casi che rendono testimonianza della nobiltà dei dettami della coscienza e della loro superiorità nei confronti di quelli giuridici. Per altro verso, se il diritto dipendesse dalla morale, allora la sua specificità verrebbe meno e sarebbe la morale stessa a diventare diritto.
Si può ben comprendere, pertanto, quanto sconcerto comporti questa sorta di “divergenza parallela” con cui morale e diritto si rapportano tra loro e quanto gravi siano i turbamenti dell’animo quando ci si trova nella condizione di dover ubbidire a due ordini contrastanti.
Il rapporto esistente tra morale e diritto non è stato sempre lo stesso nel corso dei secoli. Se si scorre la storia umana a partire dalle sue origini, si assiste ad una prima fase in cui è la morale a detenere il primato sul diritto, poi ad una seconda in cui morale e diritto si trovano in posizione di parità, infine ad una terza – che arriva fino ai giorni nostri – in cui è il diritto a prevalere nettamente sulla morale.
In tempi antichissimi – così come nelle società cosiddette “primitive” – morale e diritto sono indistinti, si confondono e creano un tutt’uno con il sentimento religioso; ciò succede perché ogni norma è riconducibile ad un ordine divino, per cui il “legislatore” (re, oracolo, sacerdote o capo tribù) altro non è se non il portavoce della divinità. Si capisce perciò come i comportamenti di queste popolazioni siano fortemente intrisi di misticismo, si accompagnino a sanzioni di natura soprannaturale e si traducano in consuetudini così radicate da non modificarsi se non con estrema lentezza. In queste condizioni di “primitività”, non conoscendosi per di più la scrittura (che è uno dei presupposti indispensabili affinché una norma assuma valore di legge), vige un regime di “diritto consuetudinario” o, se si preferisce, un “sistema morale unitario”.
Soltanto in seguito ad un lento processo di laicizzazione, la legge ha smesso di essere emanata direttamente dalla divinità ed è passata a dipendere dal potere politico, divenendone una prerogativa essenziale.
Ma anche nell’antichità classica (greca e romana, per intenderci) il diritto non è mai disgiunto da una forte componente morale (oltre che religiosa). Quando asseriscono che i precetti fondamentali del diritto consistono nel vivere onestamente, nel non nuocere al prossimo e nell’accordare a ciascuno il suo (honeste vivere, alterum non laedere, unicuique suum tribuere), i giureconsulti romani indicano soprattutto dei precetti di condotta piuttosto che delle norme giuridiche vere e proprie; ciò non significa che ogni regola morale viene ad assumere una valenza giuridica, bensì che ogni regola giuridica viene a ricevere un’impronta “giusnaturalistica” nel senso che viene accolta non perché imposta dal potere, ma perché riconosciuta da ogni singolo individuo come pertinente al proprio modo di essere.
Con l’avvento del cristianesimo – che oltre ad essere una pratica di culto è soprattutto una pratica morale – si giunge alla rottura del sistema morale unitario. Riorganizzando i valori morali in una nuova sistemazione di tipo gerarchico, il cristianesimo introduce la classe delle virtù teologali (fra cui c’è la carità che riguarda il rapporto dell’uomo con Dio) e la sovraordina a quella delle virtù cardinali (fra cui c’è la giustizia che riguarda invece la condotta puramente interpersonale). La carità – espressione della vita ultraterrena, soggetta alla legge di Dio (la lex divina) – viene innalzata a virtù morale per eccellenza, mentre la giustizia – espressione della più caduca vita terrena, soggetta alla legge degli uomini (la lex humana) – viene collocata in un gradino inferiore della scala gerarchica. Morale e diritto escono così dal loro alveo comune per seguire percorsi che differiscono per metodologia e finalità.
Col cristianesimo, morale e diritto appaiono per la prima volta come unità autonome e distinte; queste però pur non potendosi confondere, non possono neppure ignorarsi; d’altra parte, come possono confondersi se nella loro struttura sono così differenziate? E come possono ignorarsi se tutt’e due hanno per oggetto l’essere umano? Come si vede, il germe della conflittualità è già presente: la morale cristiana non nega la giustizia, ma la subordina alla carità; e il diritto, dal canto suo, fa l’esatto contrario; la vita ultraterrena, in altri termini, non è la perversa negazione della vita terrena né questa è la negazione di quella; tra la legge di Dio e la legge degli uomini non c’è di certo identità, ma non c’è neppure contraddizione.
Una volta staccatasi dal sistema unitario, la morale cristiana ha avuto – soprattutto nel mondo occidentale – un peso grandissimo sulla coscienza degli uomini, ma non è arrivata ad assorbire completamente o a cancellare quei motivi etici da cui ha tratto linfa vitale. Ciò perché – al di là di ogni condizionamento proveniente da pratiche confessionali o dall’esperienza del reale – l’uomo conserva comunque la capacità di definire da sé ciò che è bene e ciò che è male. Che derivi dalla ragione oppure dall’istinto, questa autonomia di giudizio esprime la qualità della mente umana di essere legge a sé stessa ovvero di sapersi dare una regola che comanda in modo assoluto e incondizionato, senza tener conto delle circostanze esterne che sono sempre relative ad una certa finalità. È in questa regola – in questo imperativo categorico – che risiede quella morale universale che abbiamo detto essere il mezzo necessario al prolungamento della consanguineità oltre i limiti naturali, cioè a dire il mezzo necessario per passare dallo stato di natura (o biologico) a quello di cultura (o sociale).
La dualità della morale e del diritto si è rivelata nel tempo sempre più evidente, ma non solo : al giorno d’oggi, l’ago della bilancia sembra essersi spostato nettamente a favore dell’elemento giuridico; sembra, infatti, che l’orientamento odierno sia quello di riconoscere sì uno spazio alla morale, ma a condizione che questa riconosca il primato del diritto e si adatti a tutti quei principi giuridici che sono accettati all’unanimità, di modo che quando la morale non è in grado di recepire questa universalità del diritto, allora viene degradata a semplice fenomeno individuale e invalidata a livello collettivo. Si pensi agli appelli del Papa: quando questi parla in difesa della dignità umana – ricalcando i contenuti della dichiarazione universale dei diritti dell’uomo – la sua voce trova un’adesione totale, ma quando parla contro il divorzio o l’aborto – propugnando dettami morali che non sono universalmente riconosciuti – allora le sue parole sono subissate da un mare di critiche, se non lasciate cadere nell’indifferenza.
La complessità della società contemporanea ha reso illusoria l’idea di un sistema giuridico basato su poche leggi generali cui si possa far riferimento in ogni situazione; ha piuttosto reso necessaria l’introduzione di norme sempre più numerose, sempre più particolari, sempre più tecniche, tanto da trasformare il diritto in una sorta di fabbrica dove si producono artefatti che si moltiplicano e si modificano a ritmo continuo. Senza considerare che il senso comune – abituato ad attribuire obbligatorietà ai comandi che gli appaiono conformi a giustizia e in accordo con la volontà di tutti – solo formalmente riconosce capacità di obbligare alle imposizioni che provengono da un semplice organo di potere, per cui sempre più spesso succede che si obbedisce alle leggi non perché si riconoscono come giuste, ma solo perché si vuole evitare una pena.
È anche da qui, da questa “giuridizzazione” che gravita costantemente su gran parte delle nostre azioni e permea tanti aspetti della nostra vita, che nasce quel diffuso sentimento antigiuridistico che vede e condanna nel diritto una forma normativa del tutto artificiale ed estranea, che arriva ad indicarci la condotta da seguire, ad intromettersi nelle nostre scelte private, a privarci della guida insostituibile della coscienza. Ma, paradossalmente, la stessa “giuridizzazione” rappresenta anche l’inevitabile risvolto della rivendicazione – ormai generalizzata – del diritto ad una libertà sempre più radicale e indiscriminata: basti pensare alla legittimazione di posizioni molto distanti tra loro o addirittura contraddittorie, come quella, per dirne una, che ammette un diritto alla vita e allo stesso tempo un diritto alla morte (vedi aborto ed eutanasia).
Questi diversi approcci ai problemi dell’esistenza rientrano fra le tematiche che presentano le più scottanti implicazioni etiche. Si sa che ogni nuova scoperta – soprattutto in campo medico – pone problemi sia morali che giuridici: come le leggi sono sempre all’inseguimento di una scienza troppo veloce, anche il senso comune fatica ad accettare tutte quelle innovazioni che stravolgono l’ordine della natura. Ma, come è intollerabile che il silenzio legislativo cada su temi di tale portata, così è impensabile che la coscienza taccia di fronte a certe pratiche che, pur essendo finalizzate a sconfiggere le malattie e a migliorare la qualità della vita (manipolazioni genetiche, interventi di clonazione, ecc.), possono andare ad infoltire i già numerosi atti immorali che sono indifferenti per il diritto (per il quale tutto ciò che non è proibito è lecito), ma non per la coscienza (per la quale non tutto ciò che è lecito è onesto).
Alle problematiche indotte dal progresso scientifico e tecnologico si aggiungono le preoccupazioni per tutto ciò che di pericoloso lo stesso progresso trascina con sé. Dopo un lungo periodo di esaltazione in cui il progresso ha goduto di una fede illimitata ed è stato visto non come qualcosa di utopistico, bensì come una realtà concreta, tangibile e fruibile, oggi si ha l’impressione che tutto questo stia miseramente crollando: cadono le illusioni che la corsa ad un benessere sempre maggiore possa perpetuarsi all’infinito, affiorano i dubbi sulla liceità che le società tecnologicamente avanzate abbiano tutto, mentre quelle più arretrate non abbiano neppure di che sfamarsi, vacillano le certezze che l’uomo possa controllare le forze che lui stesso ha evocato. Si profila, insomma, l’incubo della catastrofe: ci si sta finalmente accorgendo dei danni incalcolabili e spesso irreversibili causati dal degrado ambientale, dall’uso di un numero sempre più elevato di sostanze nocive, dall’esposizione sempre più frequente alle subdole radiazioni ionizzanti; si convive con la paura degli immani disastri che conseguirebbero ad un impiego bellico dell’energia nucleare o ad un errore umano nella gestione della stessa (vedi Hiroshima e Chernobyl); si è sempre più scettici nei confronti di molte procedure mediche che, come le trasfusioni di sangue, sono veicoli di malattie anche molto gravi.
È evidente che il problema dell’integrazione dell’individuo nella società, oggi si somma a quello della sua integrazione nell’ambiente (non solo di quello naturale che ha modificato, ma anche di quello artificiale che si è costruito intorno), arricchendosi di tutta una serie di richieste che non sempre trovano nella morale o nel diritto – da cui non possono prescindere – una sufficiente accoglienza. Anzi, anche quando una soluzione sembra essere a portata di mano – al prezzo, però, di privazioni e di sacrifici ai quali non si è più abituati – allora questa viene sistematicamente messa da parte. Chi, infatti, o quale stato sarebbe disposto a rinunciare – in mancanza di fonti alternative – ad importanti fonti energetiche (come, per esempio, il petrolio) in nome della salvaguardia ambientale o in vista di un inevitabile esaurimento delle scorte? E quale stato che non sia guidato da un folle potrebbe mai mettere fuori legge la ricerca scientifica?
E allora? Come superare tutte queste difficoltà? È davvero l’altra faccia del progresso a generare paura, sfiducia e quindi egoismo oppure è la morale comune ad avvertire un senso oscuro di crisi interiore? Comunque sia, è già confortante il fatto che si percepisca, in tutto il mondo contemporaneo, un latente quanto diffuso desiderio di riconquistare quell’unità che si era dissolta con l’avvento del cristianesimo e che aveva rappresentato l’esempio più mirabile e tutt’ora insuperato di coesione sociale e di universalità di valori. Questo supposto “richiamo del primitivismo” non va inteso, naturalmente, come fuga dalla realtà o irresponsabile isolamento in un ideale astratto, bensì come desiderio latente di rifondazione della società. L’unità perduta cui inconsciamente sembra si voglia ritornare, non è solo quella morale e giuridica, ma anche religiosa, culturale, economica: è quella unità che racchiude in sé e amalgama ogni aspetto della vita sociale che può essere assunto con valore di norma. In particolare, norma morale e norma giuridica dovranno necessariamente coincidere o almeno avvicinarsi il più possibile, affinché l’uomo possa riconciliarsi con sé stesso e conservare la sua dignità.
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