di Antonio Stanca

A Marzo è comparsa, anche questa per conto della Feltrinelli, la terza edizione del romanzo La stanza delle mele di Matteo Righetto. La prima era stata del 2022, la seconda del 2023. Il Righetto è nato a Padova nel 1972, a Padova è vissuto, ha studiato, si è laureato in Lettere e alla Ca’ Foscari di Venezia insegna Letteratura Italiana. Il giornalismo è stato il suo primo impegno, i problemi della cultura, della società contemporanea i suoi primi interessi. A quarant’anni, nel 2012, ha pubblicato la prima opera narrativa, Savana Padana. Tra il 2017 e il 2019 è venuta la “Trilogia della Patria”, tre romanzi che hanno avuto molto successo, molte traduzioni e sono stati ridotti per il cinema. Uno scrittore noto è ormai Righetto, uno scrittore impegnato, prolifico, anche il teatro lo ha visto tra i suoi autori. Alla narrativa, tuttavia, è legato il suo nome giacché facile è riscoprirlo, riconoscerlo nei romanzi. In ognuno tornano gli ambienti, i personaggi, i temi suoi propri: la montagna, i suoi abitanti e quanto può succedere in zone, tra persone così lontane, così diverse, quali rapporti corrono tra loro, quanto tra loro si continua e quanto cambia. Un’altra è l’umanità che Righetto mostra nelle sue narrazioni, è un’umanità che viene da lontano, che è primitiva, che di primitivo ha luoghi, colori, odori, profumi, sapori, usi, costumi, linguaggi, credenze, case, aria, flora, fauna, e che, giunta ai tempi nuovi è chiamata a confrontarsi con questi. Un mondo antico, quello della montagna, sta in Righetto con un mondo moderno, quello della città: si confrontano senza che si possa prevedere un esito, un risultato.

Anche ne La stanza delle mele si vive una situazione simile, sospesa tra vecchio e nuovo, anche qui fino alla fine non si intravede una qualche soluzione.

Durante l’estate del 1954 Giacomo Nef, un bambino di undici anni, vive insieme ai due fratelli di poco più grandi, Celestino e Titta, con i nonni paterni a Daghè, nel Col di Lana, Dolomiti Bellunesi. Durante la guerra sono rimasti senza genitori e rifugiatisi dai nonni li aiutano nei lavori richiesti dalla casa, dalla campagna, dal bestiame, dal pollaio, ricevendone l’ospitalità, il sostentamento e quant’altro serve a farli crescere, istruirli, formarli. Giacomo, il più piccolo, è il più esposto alla durezza del nonno che è convinto sia nato da una relazione clandestina della nuora. Lo perseguita quasi in continuazione, gli attribuisce molti difetti ed anche i fratelli lo maltrattano convinti che sia un incapace, uno svogliato. Solo la nonna mostra comprensione nei suoi riguardi anche se non sempre. “La stanza delle mele” diventerà il posto della casa dove il nonno lo rinchiuderà ogni volta che vuole punirlo e qui Giacomo si adatterà a stare disteso tra il rozzo pavimento e il fieno accatastato, a pensare alla sua cattiva sorte, a non vederne vie d’uscita. Inizia, però, a lavorare piccoli pezzi di legno che vi porta da fuori insieme a qualche vecchio attrezzo da scultura. Riesce pian piano, da solo, a dare forma a quei legni, a creare figure, in genere di animali dei boschi. Comincia pure a sognare di diventare un famoso scultore. Tra queste aspirazioni e le sue perenni afflizioni trascorre il tempo in quella stanza fin quando non succederà qualcosa di inaspettato. Una sera d’agosto, mentre si sta avvicinando un furioso temporale, il nonno lo manda a recuperare la roncola usata durante il giorno e dimenticata in un certo punto della montagna. Quando Giacomo vi giunge il temporale è già iniziato e in modo violento. Non sa come fare e intanto all’improvviso scorge appeso ad un albero il corpo di un uomo. Crede si sia impiccato, si spaventa ancora di più e con tutte le forze, comincia a correre sulla via del ritorno sotto una pioggia molto fitta e su un terreno tra i più accidentati. Rimarrà terrorizzato dalla visione, dalla situazione. Non ha modo di capire di chi si tratta, come, perché è avvenuto, non ne parla con nessuno e se lo fa si pente perché non è creduto, è accusato di vaneggiare. Intanto succederà che l’impiccato dopo qualche giorno non ci sia più sul posto e che tutto diventi più difficile da capire, da spiegare, che diventi un mistero. Ma succederà pure che tanto tempo passi, che tanta vita si svolga tra quelle montagne, quelle grotte, quei boschi, quei fiumi, quelle valli, quei prati, che tanto avvenga, si sappia, si dica, nell’opera, della storia, delle leggende, dei miti che di quella vita hanno fatto parte, che i nonni muoiano e che i nipoti, ormai adulti, vengano affidati dalla chiesa del paese a istituti di beneficenza che provvederanno a far compiere loro altri studi e ad inserirli nella società civile, nella vita urbana, nel mondo del lavoro anche in paesi stranieri. Uno scultore affermato diventerà Giacomo, verrà pure a conoscenza dei segreti che si celavano dietro quella terribile visione sulla montagna, di quanto era stata vera ma neanche questo riuscirà a liberarlo dal rapporto col suo passato, neanche il bene sopravvenuto saprà annullare il male sofferto. Non sarà possibile neanche adesso che vive a Venezia tra tanti riconoscimenti delle sue qualità artistiche perché con Giacomo un altro esempio ha voluto costruire il Righetto di quanto serve per fare della vita un’esperienza completa, totale, mostrare ha voluto quanto di diverso, di contrario può essa accogliere, contenere, giustificare. Selvaggio, crudele, cattivo era stato il mondo nel quale Giacomo era cresciuto, civile, colto, raffinato quello che lo aveva visto maturo. Di entrambi era stata fatta la sua vita, di essi era diventata il simbolo, un personaggio come altri dello scrittore lo avevano reso e solo così poteva valere.

Antonio Stanca