di Marcello Buttazzo –

Nei giardini dell’anima, la vita. La vita vera e quella solo vagheggiata. La vita esperita e quella solo trasognata. Nel giardino del Convento, l’infanzia. Le corse sfrenate a perdifiato dietro a un pallone su campi di catrame. I giochi fanciulli, laddove Francesco, anima folle, stremata d’amore, faceva crescere l’albero del mandarancio. Francesco era fra noi, nei nostri vissuti, nelle azioni, nei comportamenti. E non solo nei racconti dei nostri frati minori, padre Rosario, padre Corrado, padre Igino, padre Luigi, padre Guglielmo, frate Vincenzo. Francesco era una filosofia da praticare per poter traversare, illesi, l’incerta ventura dell’esistenza. E c’era, ai tempi dell’infanzia, l’amore. Amore per l’amicizia, che era come un’ipotenusa di sole, che ci sorprendeva di continuo. Amore per le piccole cose, quelle minuscole, che avevano una straordinaria significanza. Per quanto mi riguarda, amore illimitato per la madre, che è sempre stata la mia musa preferita coi suoi occhi verdi, più virenti dei mari del Sud. Quante volte la madre ha consolato il mio pianto e l’ha saputo trasformare in gioia. Quante volte mi ha accolto fra le sue braccia, e mi ha invogliato a non desistere al cospetto delle turbolenze. Quante volte, la madre, ha fatto sorgere l’aurora, ha fatto nascere i bagliori del nuovo giorno! Ai tempi dell’infanzia, c’erano davvero tanti giochi, giochi selvaggi, da fare tutti assieme con spirito compagno. Nei giardini dell’anima, c’è sempre una musa di stupore, di meraviglia, ad ogni età. A volte, penso a lei, alla musa adolescenziale, non per nostalgia, non per malinconia. Penso alla musa della mia prima giovinezza con un senso di gratitudine. Vorrei tanto farle arrivare il calore dei nostri vissuti, la bellezza umana del suo esistere. Tanti anni fa, in prati di arcobaleni ridestati rosseggiava d’amore la primavera. Bianchi, gli alberi della vita. Tenue il cielo di fine marzo, lampi di fuoco, un viso di donna azzurrava di promesse giovani fanciulli, mentre lontano dai loro posatoi saettavano i lucenti mattini. Ricordo l’estate, con lei che mi danzava sul cuore. Festoso fluire di gente. Il sole, fraterno compagno, scaldava gli uomini, eccitava i bambini, illeggiadriva le donne. Il sole era un lampo di fuoco rabbioso scoccato nel giorno. Sole d’estate come un’attesa pioggia di luglio, come i suoi bianchi seni la notte dei giochi d’amore. E penso, ancora oggi: sole sfavilla sui miei piccoli dolori, che sono una tremenda conchiglia della memoria, sulle spiagge del tempo. Eppure, senza alcuna tristezza, ma con gioia benedetta, ti ricordo musa dell’adolescenza. Mia prima musa di fulgore. Ancora oggi, riverberi di te, quanti di fuoco sulla pietra antica della piazza danzano. Tu, luce, dai piedi della guglia rimbalzi, attraversi la mia ombra, valichi il sogno, e accendi le ore del nuovo giorno. Il tempo è passato, trasvolato, fuggito irreversibilmente. Ora m’avvio lentamente nell’età ultima. Ma per un senso di pacificazione con me stesso, con la mia interiorità, mi piace immaginarti che corri nei tuoi prati ridestati con il tuo fanciullo con le tracce d’oro. E come una volta raccogli e sfami i cagnolini per strada. Ancora oggi mi capita di vederti negli occhi delle passanti. Mi piace ascoltare la tua voce, anche se non ti vedo e non ti sento più da quasi venticinque anni. Sento voci di donne alla radio. Pensieri e parole, cantar leggero. Un’onda gentile allieta la mia stanza. Nell’etere corre un desiderio inesplorato, una passione inesplosa, un nuovo scompiglio. Sei tu che voli e ti nascondi in un’aura vergine e inafferrabile di musica e canzonette. Sei tu che canti la vita, che appari e scompari. Sei tu che col tuo scialle d’oro squarci la sera e scappi via.

Marcello Buttazzo