Elie Wiesel, la voce della pace
Antonio Stanca –
Per conto della casa editrice Giuntina è comparsa tempo addietro la trentunesima edizione de La notte, romanzo breve dello scrittore rumeno Elie Wiesel. Era stato il suo esordio nella narrativa, lo aveva pubblicato nel 1956 quando era in America, a Buenos Aires, poi lo aveva tradotto in francese e ripubblicato nel 1958. In Italia sarebbe comparso nel 1980 e già allora la Giuntina era stata la sua casa editrice.
Wiesel è nato a Sighet, Maramures, in Transilvania, nel 1928 ed è morto a Manhattan nel 2016. Aveva ottantotto anni. La sua famiglia era di origine ebraica e lui fin da ragazzo aveva mostrato di preferire studi di carattere religioso. Aveva, però, dovuto rinunciare poiché a quindici anni era stato deportato, insieme ai familiari, nel campo di concentramento di Auschwitz e poi in quello di Buchenwald. In questi posti avrebbe perso il padre, la madre e una sorella mentre lui sarebbe sopravvissuto grazie all’arrivo delle Forze Alleate alla fine della guerra. Erano stati gli anni 1944-45 ed una volta rientrato in patria si era spostato in Francia dove aveva cominciato a fare giornalismo e a studiare Letteratura e Filosofia alla Sorbona. Di seguito, nel 1956, sarebbe andato a New York per rimanervi più a lungo e lavorare come corrispondente di un giornale israeliano presso le Nazioni Unite. Assunta la cittadinanza statunitense, avrebbe insegnato Materie Letterarie e Religione in università americane e di altre nazioni. Avrebbe continuato col giornalismo, con conferenze, convegni, incontri, colloqui, studi tenuti in diversi ambienti e impegno suo principale sarebbe stato quello di promuovere la pace, la collaborazione tra i popoli, di annullare le differenze, tendere ad una popolazione mondiale che tutti li comprendesse. Nel 1986 gli è stato assegnato il Premio Nobel per la pace. A questi intenti, a queste aspirazioni risponde la fondazione da lui effettuata a Parigi nel 1992 dell’Accademia Universale delle Culture. E risponde pure la sua vasta e varia attività di scrittore di romanzi e racconti, di saggista, di drammaturgo. Estesa è la sua produzione in questi ambiti giacché a muoverla, ad alimentarla concorre anche il bisogno dell’autore di dire delle gravi sofferenze patite da lui e dai suoi familiari durante la seconda guerra mondiale nonché la volontà di recuperare, far conoscere quanto delle tradizioni, della cultura, della religione degli Ebrei era stato continuato dalle loro comunità diffuse nell’Europa Orientale e poi offeso e quasi distrutto dalle persecuzioni naziste. Sono propositi che compaiono già nella prima opera narrativa, La notte, e che sarà sempre possibile rintracciare nelle opere della maturità.
Molto si è discusso su come interpretare La notte, se intenderlo come un romanzo autobiografico o una testimonianza, una confessione, una rivelazione. Va notato che nel passaggio dalla prima edizione, quella americana, alla seconda, quella francese tradotta dallo stesso scrittore, l’opera perde molta della crudeltà, della violenza che c’era stata prima, si può dire che finisce di essere carica di orrori e diventa una narrazione dai toni, dai modi più distesi, dal percorso più lineare, più composto. Da una testimonianza cruenta era diventata un romanzo. Sarebbe stato anche quello dell’edizione italiana. È tutto incentrato a dire del periodo vissuto dal bambino Wiesel e dal padre nei due campi di concentramento dove erano stati separati dalla madre e dall’altra figlia. Era avvenuto tra il 1944 e il 1945, Wiesel aveva quindici anni e sarebbe stato l’unico a sopravvivere tra i familiari. Insieme al padre sarebbe rimasto fino alla morte di lui nel campo di Buchenwald dove erano stati portati da Auschwitz con una marcia lunghissima, faticosissima, mortale per molti detenuti, e dove si trovavano all’arrivo delle Forze Alleate. Erano sempre stati insieme e commovente, pietoso diventa il loro rapporto, quello di un padre e di un figlio piccolo che attendono di essere eliminati, che miracolosamente sfuggono alle ripetute selezioni dei sorveglianti tedeschi ma che, diventati sempre più deboli, più malati a causa del freddo, della fame, del lavoro che era loro richiesto, delle lunghe marce, si sono convinti di dover morire per cause naturali o nei forni crematori, di non avere altra possibilità. Si consolano a vicenda, si alternano nelle parole di incoraggiamento, di speranza. Intorno a loro ci sono migliaia di deportati. C’è desolazione, morte e lo scrittore le mostra nei loro aspetti paurosi. Ma mostra anche altre cose, fa sentire parole più semplici, più buone, fa vedere momenti più intimi, più delicati, più umani, trova posto per l’affetto, l’amore, il bene, per improvvise immagini poetiche. Da qui la sensazione di leggere un romanzo, di non assistere solo ad una cruda testimonianza, ad un riporto di quanto accade. Eliezer, il bambino che narra e che sarà poi l’Elie che scriverà, mentre dice del dramma suo e degli altri si sofferma a cogliere pensieri, sentimenti, intenzioni, azioni che sono diverse dalla grave situazione diffusa, sono più forti di quella perché dall’anima, dallo spirito provengono, perché a chi continua a credere, a chi alla vita pensa pur davanti alla morte appartengono. L’opera è sempre attraversata da voci sotterranee, segrete che si cercano, che vogliono incontrarsi, parlarsi, salvarsi. Viene superata la versione del documento tragico, quella propria della prima edizione, ed un romanzo appunto diventa questo del Wiesel perché tanta vita vi fa rientrare lo scrittore, tanta bontà, tanta umanità fa vedere possibili. Storie d’amore fa succedere in luoghi di tortura, storie di anime costruisce su un disastro.
Verranno altre sue opere, molte altre tra romanzi, racconti e drammi, ritorneranno i suoi temi e ritornerà pure la sua maniera di scrivere, diventerà la sua nota distintiva quella di cogliere la gravità di certe situazioni nella vita, nella società, nella storia dei nostri tempi e di adoperarsi per porvi rimedio, per ottenere il bene, il meglio, per superare i contrasti, le rivalità, le differenze di ogni genere, per raggiungere un’umanità nella quale sia possibile riconoscersi ovunque ci si trovi.
In un messaggio di amore infinito si è tradotta l’esperienza sofferta da quel bambino nei campi di concentramento, una voce di pace è diventata la sua, in tutto il mondo si è fatta sentire, di un’epoca è stata il segno.
Antonio Stanca
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