di Antonio Stanca – 

E’ nato a Providence, Tennessee, nel 1933, ha ottantasei anni e da molto tempo si è ritirato dalla vita pubblica, compresa quella di carattere culturale o specificamente letterario. Lo ha fatto a Tesuque, Nuovo Messico, dove da anni vive con la terza moglie Jennifer e il figlio John. E’ considerato uno dei maggiori scrittori americani contemporanei, si chiama Cormac McCarthy e prima di arrivare a quella della scrittura ha avuto molte altre esperienze: ha iniziato gli studi universitari senza completarli, è stato nell’esercito, ha lavorato per la radio, per il teatro, ha molto viaggiato e a ventiquattro anni ha cominciato a scrivere. Lo ha fatto con due racconti che hanno ottenuto un immediato riconoscimento. Poi nel 1965, quando aveva trentadue anni, ha scritto il primo romanzo, Il guardiano del frutteto, pubblicato dall’editore Erskine per venti anni consecutivi. Nell’opera compaiono quelli che sarebbero stati i temi e i toni di tutta la produzione narrativa del McCarthy, quello stato di miseria, cioè, di degrado, di sfacelo che c’era ancora in tante parti dell’America del suo tempo nonostante fosse diventata la maggiore potenza del mondo. L’America povera, primitiva, quella dei boschi, degli animali che ci abitano, degli uomini che ci vivono senza casa, senza soldi, l’America della natura che esiste, si svolge per conto proprio, fuori, lontano da regole determinate, è quella dei romanzi di McCarthy. Non c’è in essi un ordine stabilito poiché tutto, compresa la vita dei protagonisti, avviene liberamente come per le piante, gli animali ed ogni altro elemento naturale. Nuovo si è mostrato il McCarthy nel fare della vita dell’uomo un’esperienza irregolare, imprevedibile, una condizione aperta ad ogni evenienza. 

Procedendo in tal senso lo scrittore è arrivato a concepire il romanzo La strada, uno dei suoi ultimi se non l’ultimo, pubblicato nel 2006 ed ora ristampato dalla casa editrice Einaudi di Torino con la traduzione di Martina Testa.

Come altre del McCarthy l’opera è stata trasposta in un film e come altre è stata premiata. A La stradaè stato assegnato nel 2007 il Premio Pulitzer per la Narrativa.
In questo romanzo quel senso di sconfitta, di perdita, che era stato di tanti altri, è diventato definitivo: è un mondo finito quello che lo scrittore rappresenta, un mondo che è stato devastato da un incendio totale del quale si scorgono i segni in ogni posto, un mondo dove pochi sono i sopravvissuti, pochissimi e tutti prossimi alla fine poiché tutti privi dei mezzi necessari per continuare a vivere. Tra questi c’è un padre e un figlio piccolo, un bambino, che percorrono le rovine, i resti di quel mondo, che dall’interno del loro paese si propongono di raggiungere la costa, il mare, dove pensano di salvarsi dal disastro anche se non sanno come.
Lunghissimo, infinito, diventa il viaggio che lo scrittore fa compiere ai due. Essi procedono con appena il necessario per sopravvivere che consiste in quanto di ancora buono, di ancora utile riescono a racimolare, a scovare quando s’imbattono in posti che erano stati abitati. Hanno sistemato quanto trovato in un carrello da supermercato che spingono tra strade sconnesse, rovinate, boschi incendiati, città distrutte, case crollate. Soffrono il freddo, la fame, dormono per terra a volte riscaldati dal calore di un falò. Procedono avvolti in coperte lacere, sporche, con ai piedi scarpe sfondate o fasce di stoffa, strisce di plastica. Può capitare che non mangino per giorni se non riescono a trovare i resti di una casa, di una fattoria, di un locale pubblico o di un altro posto dove scoprire avanzi di cibo o vecchie scatole di cibi conservati. Oltre a questi anche altre cose cercano, tutto ciò che può servire a risolvere o almeno ridurre i problemi della loro condizione, delle loro notti, del loro freddo, della loro salute.
S’imbatteranno in altre persone sopravvissute ma saranno dei predoni, dei “cattivi” dai quali capiranno di dover stare lontano. E’ il padre a soffrire in particolar modo anche perché costretto a incoraggiare continuamente il figlio, a promettergli possibilità di salvezza, a fargli intravedere mondi diversi mentre più grave vede diventare la situazione intorno a loro, più difficile il loro cammino, più lontane le mete che si sono proposti.
Soffrirà molto il padre, si ammalerà, morirà e il bambino da solo lo seppellirà, da solo farà la veglia funebre e poi sarà accolto da un gruppo di “buoni” con i quali continuerà il suo viaggio, la sua ricerca. 
E’ la fine del romanzo, è il suo ultimo atto, è l’arrivo sulla costa e questa nuova, diversa situazione mostra come lo scrittore accolga l’imprevisto, come sappia animare, salvare una vicenda tramite circostanze diverse, improvvise, inaspettate, come tutto rientri in quel senso d’irregolarità che è proprio della vita del McCarthy, in quel suo pensiero di essa quale esperienza perennemente mobile. Per fare di tutto questo motivo di scrittura è necessaria una ricchezza linguistica non comune, una capacità espressiva eccezionale ma è pure necessario sentire, vivere quanto si sta rappresentando, voler dire con esso di un proprio dramma, di un proprio tormento, di una propria salvezza.

Antonio Stanca