“Camminamenti” per Naìma
di Vittorino Curci –
Le Edizioni Kurumuny di Calimera inaugurano “Camminamenti”, la nuova collana diretta da Marthia Carrozzo, poetessa e attrice salentina che vive attualmente a Firenze.
Una “piccola collana di scritture in movimento”, che mette in dialogo la poesia con altri saperi, che si è resa necessaria, come spiega la stessa direttrice nell’introduzione al volume, (“Camminamenti: una prospettiva”), “Perché, da poetessa, è in movimento che io immagino la poesia, sempre nel superamento di sé, protesa ad arricchirsi e ridefinirsi nell’incontro con l’altro. […] seguendo la sola ragione dell’essere uomini e donne in cammino: trovare le chiavi d’accesso del mondo e di noi. Ecco, allora, la necessità di svelare quest’ultimo in ogni sua contraddizione, rivelandone un volto più autentico, scevro da immagini stereotipate, da preconcetti pericolosi e fuorvianti“.
Esattamente in quest’ottica, dunque, il primo volume della collana, che si intitola “Al Maqam, la storia di Naìma (O del corpo che si rivela)”, è affidato a Joumana Haddad e Nabil Salemeh.
Joumana Haddad è una giornalista, scrittrice e poetessa libanese. In questo libro ci propone un florilegio di sue poesie scelte che per la prima volta in Italia vengono pubblicate con testo arabo a fronte. Joumana Haddad, che è anche attivista per i diritti umani (Roberto Saviano di lei ha detto che “appartiene alla sempre più rara specie di intellettuali che non si fanno intimidire”), è una scrittrice molto conosciuta e stimata a livello internazionale. In Italia, nel 2010, Mondadori pubblicò “Ho ucciso Shahrazad”, un libro autobiografico che ci aiuta a capire meglio la figura dell’autrice. Per comprendere chi sia Joumana Haddad, diremo che è una donna araba dei nostri giorni che ad un certo punto prende la parola.
Una donna libanese “insaziabile, insubordinata e consapevole”, che a 12 anni legge di nascosto “Justine” del Marchese de Sade; che scrive il suo primo libro in francese; che a 25 anni usa la parola “pene” in una poesia e che in seguito fonda addirittura una rivista, da lei diretta, interamente incentrata sul corpo. Bisogna rendersi conto che allegorie, metafore e simboli non sono sempre e ovunque usati come libera scelta del poeta: Joumana vive in una cultura in cui spesso le cose non vengono chiamate con il loro nome. Sempre in “Ho ucciso Shahrazad”, racconta come da ragazzi, fossero soliti guardare i film stranieri in tv con la traduzione modificata rispetto all’originale, proprio perché certe non si potevano pronunciare.
Questa donna, però, a un certo punto della sua vita, dice basta, si ribella a ogni forma di conformismo e ipocrisia: “Chi altri, se non io, può dire quali sono i miei limiti in quanto scrittrice?”. Ed è da quel temerario gesto di insubordinazione, di ribellione, che nasce per lei una nuova lingua poetica, una nuova coscienza di sé (“Mi ci è voluto un bel po’ di tempo per liberare il mio linguaggio dalla paura delle parole”). Da lì nasce la limpidezza di un linguaggio poetico in cui non ci sono abbellimenti, fronzoli letterari. Da quel momento in poi la donna che parla nei suoi libri, sia in prosa che in versi, ha un rapporto schietto e sincero con la realtà. La letteratura cessa di essere un luogo fittizio e diventa realtà viva e splendente. C’è una energia antiretorica nella sua scrittura che finisce per smarcarci.
La poetica di Joumana Haddad ha il suo nucleo fondante nella figura di Lilith, la prima donna che compare nella mitologia sumera, assiro-babilonese, ma anche nell’Antico Testamento e nel Talmud. Lilith è la prima compagna di Adamo, è la donna indipendente, non creata da una costola dell’uomo come Eva, è la donna destino, non sottomessa all’uomo, è la sposa della verità e del mito, è ciò che manca all’uomo e ciò che manca alla donna, è “il compimento della femminilità mancante”, “la regina degli smarriti nel mondo”, colei che per sua scelta abbandonò il paradiso. In sintesi, è la donna che sfugge a ogni definizione.
Questa donna dunque, che oltre ad essere donna è anche poetessa, ci parla, nella sua ricerca poetica, di qualcosa che riguarda tutti noi, cioè, dell’incomprensione che ancora esiste tra oriente e occidente, un’incomprensione da superare dunque, bel segno di “Camminamenti”.
Infine, per citarne solo alcuni, ci sono dei versi di Joumana Haddad che restano impressi nella memoria: “Chi comprende il mio ritmo mi conosce, / mi segue, / ma mai mi raggiunge”… “Dove scappate, mentre mi correte incontro?”… “è il desiderio che fa muovere le montagne, / non la fede”… “I libri mi hanno scritta e voi non mi avete letta.”
Nella seconda parte del libro Nabil Salameh, giornalista, traduttore e docente di etnomusicologia e storia della musica araba, ben noto fondatore e voce del gruppo Radiodervish, presenta un corposo saggio dal titolo: “Naìma, donna archetipo di un’intera cultura”.
Libanese come Joumana ma pugliese d’adozione si potrebbe dire da sempre, Nabil non ha davvero bisogno di presentazioni e anzi, per quanto riguarda certi aspetti sociali, noi pugliesi siamo quelli che siamo, anche grazie al contributo infaticabile apportato da Nabil per farci conoscere il mondo da cui proviene, perché quel modo arabo non ci restasse estraneo e ostile. Se in questa terra siamo predisposti all’incontro con l’altro, caratteristica che noi pugliesi dobbiamo rivendicare, ebbene, lo dobbiamo anche a lui.
In questo libro, la parte affidata a lui ci racconta “La storia di Naìma”, o come recita il sottotitolo del volume, “del corpo che si rivela”.
Premetto che prima di leggere questo libro per me “Naìma” era soltanto una ballad di John Coltrane, una bellissima ballad dedicata alla sua prima moglie che si chiamava, appunto, Naìma.
Ebbene, già dalle prime righe di questo saggio, Nabil dichiara subito qual è l’intento del suo scritto: vuole rileggere il mondo arabo attraverso gli occhi di una donna.
Naìma, che in arabo significa “beatitudine” (una parola oggi scomparsa dal nostro vocabolario), incarna una beatitudine dovuta alla piena consapevolezza di sè, in quanto essere pensante ed ancor più in quanto donna. La protagonista di questo saggio-racconto di Nabil, è una figura immaginaria, collocata però in un preciso contesto storico, tra VII e VIIl secolo. Figlia di Azza al-Maila, “la sinuosa”, la donna cristiana di Medina che quando cantava i suoi versi, accompagnandosi con l’oud, faceva fermare il mondo, Naìma fu educata all’arte dalla madre. Quando restò orfana dei genitori decise di tornare a Medina, luogo di provenienza della sua famiglia, dove riaprì la scuola che sua madre anni prima fu costretta a chiudere per l’ostilità di alcune frange oscurantiste del clero. Ebbene, tra i frequentatori della scuola di Naìma c’era Omar, il figlio del governatore di Medina. Tra Naìma e Omar è amore a prima vista (e qui, nel libro, ci sono delle bellissime, raffinatissime descrizioni erotiche). A completare la trama, un antagonista non corrisposto dalla bella Naìma che medita vendetta.
Ma ancora, tra le pagine di quello che ci appare più come un racconto vero e proprio si narra delle stesura di un “Dizionario dell’Amore” e di un monastero Sufi nel deserto, senza dimenticare le ombre di un mondo pure molto diverso da quello che ci si aspetterebbe, culla di poesia e di musica e di danza, che ci introduce all’arte del Maqam. La parola Maqam che compare nel titolo è “il luogo” in cui dimora la musica e allo stesso tempo il luogo emozionale in cui l’ascoltatore viene trasportato per compiere un’esperienza sensoriale e spirituale, la stessa che ogni lettore potrà compiere tra le entusiasmanti pagine di questo lavoro così curato nei minimi dettagli.
La mia prima impressione dopo aver ultimato la lettura del libro è che esso sia innanzitutto un viatico per conoscere la poesia araba. (Cosa che farò senz’altro approfittando del nutrito apparato di note). Ma credo che questo scritto sia anche un puntuale saggio critico sulla cultura araba e, nel contempo, un racconto fascinoso e avvincente, soprattutto nella parte centrale dove si parla della storia d’amore tra Naìma e Omar. Il saggio di Nabil, nel contesto del libro, si pone nei confronti dei versi di Joumana Haddad come una voce dialogante e un contrappunto musicale.
Quali sono gli insegnamenti che ci consegna Naìma? Li sintetizzo brevemente in cinque punti.
1. Naìma aveva appreso dalla madre che “nella musica araba non importa l’approdo ma l’attraversamento”. (Ma questo non è forse vero anche per la poesia e per qualsiasi altra forma di arte?)
2. “Vita e poesia devono coincidere in una verità che mette a nudo la sua complessità”.
3. Ad un certo punto del racconto Naìma dà ai suoi allievi l’ordine di salvare il Dizionario dell’amore e tutti gli altri libri perché, dice, “sono la sola speranza che possa salvarci”.
4. Naìma, ancora, dice di sé: “L’amore è il mio Signore; la poesia, il mio cammino; la bellezza, la sola fede per cui io viva e studi”.
5. Nel monastero Sufi Naìma si chiede se il corpo può essere separato dallo spirito, ipotizzando: “Vita, Poesia e Amore. È l’unica strada: ora ne sono certa”.
Al lettore che certamente saprà appassionarsi a queste pagine, lascio la sorpresa di una storia delicata e coraggiosa, di forti valori e dai colori accattivanti, che non a caso sceglie di intrecciarsi ai versi, altrettanto forti e sensuali, della più nota poetessa del mondo arabo contemporaneo, dando vita a questo bellissimo, audace, primo Camminamento.
Vittorino Curci
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