Il MACMa – Museo di Arte Contemporanea di Matino ospita, fino al 31 agosto, nello spazio espositivo delle Scuderie la prima tappa della mostra itinerante “Siamo solo il nostro sguardo” personale di Fulvio Tornese supportata da Galleria Monteoliveto, promossa dal Comune di Matino e patrocinata da Regione Puglia, Provincia di Lecce, Ordine degli Architetti, Paesaggisti e Pianificatori della Provincia di Lecce, Puglia Promozione.

Pubblichiamo qui una conversazione sui “bianchi” tra Fulvio Tornese e Laura Perrone

Ci puoi raccontare come nasce la mostra “Siamo solo il nostro sguardo”, allestita negli spazi delle Scuderie nel Palazzo Marchesale di Matino?
La particolarità di questo lavoro sta nel fatto che, per quanto si possa programmare, progettare, pianificarel’attività creativa, alla fine quello che realmente determina le traiettorie è la capacità di imprimere le deviazioni, determinare le pause e riconoscere la cosa giusta, al momento giusto.Così è stato per questa mostra. L’architetto Walter Pennetta, Dirigente al Comune di Matino per le Attività Artistiche – che amichevolmenteda molti anni segue il mio lavoro – da sempre mi sollecitava a fare una mostra in provincia.Fino a quando, lo scorso autunno, mi ha invitato avisitare il Palazzo Marchesale.Era di pomeriggio, con il sole basso sull’orizzonte e una luce calda che passava dalle piccole finestre della scuderia bianca. In quel momento ho pensato che quello sarebbe stato il luogo perfetto per una mostra della serie di opere su cui stavo lavorando: i bianchi.

Ci troviamo in una nuova fase della tua ricerca pittorica, a differenza dei tuoi primi lavori, nei bianchi è come se l’architettura si facesse da parte per far emergere, da un segno costruito con grande forza di sintesi, figure antropomorfe. Chi sono i bianchi?
Si appunto, una nuova fase della ricerca. In realtà, come puoi immaginare, non esistono dei punti di svolta palesi, diciamo che nel corso del tempo le storie che racconto, hanno avuto meno bisogno di dettaglio, di colore di sfumature.Prima il segno nero, grosso, gestuale; poi il bianco, in tutte le tonalità possibili.A questo aggiungi che il disegno della città – mia fissazione e mio divertimento – man mano si è ridotto diventando dettaglio, sfondo, frammento. La figura riprende possesso della scena, si “normalizza”nelle fattezze. Racconti di storie non più demandati a edifici e macchine antropomorfe, ma interpretate da personaggi quasi reali.

È come se in “Siamo solo il nostro sguardo”, la relazione con l’architettura, uscita fuori dal quadro, diventa insita allo spazio espositivo stesso.Ci vuoi raccontare qualcosa di più sulla relazione che fin da subito hai sentito tra i tuoi bianchi e lo spazio in cui sono esposti?
Non ho avuto scelta. Come ho detto prima, la scuderia pitturata a calce si è presentata, non come il luogo adatto per la mostra, ma come l’unico per quelle opere: le scabrosità delle pareti sembravano il naturale espandersi della trama della tela e delle pieghe delle carte il tutto in una staticità secolare di questo grande stanzone voltato. Le tonalità del bianco e i segni neri delle opere sono tutt’uno con la calce e con le chiazze di muffa delle pareti, come graffiti.

Dove volgono lo sguardo i bianchi?Qual è la loro relazione con la spazialità?
Quasi sempre sono pose frontali, abbassano talvolta il capo, ma non sfuggono, non si voltano, sono assorti, con lo sguardo che passa attraverso le cose oltre le linee di chiusura della scena dipinta.Sono soggetti in primo piano, con un’inquadratura cinematografica a figura intera, o, nelle scene complesse, estratti da uno storyboard. Sono protagonisti: è la loro storia, non sono lì per caso.

Esiste in questa tua ricerca una risignificazione tra uomo e natura?
La presenza della natura non è contemplata, al massimo accennata per definire i campi di profondità che devono far risaltare, o meno, la figura in primo piano.La natura naturale non esiste, il nostro è un mondo totalmente antropizzato, il rapporto non è tra uomo e natura, ma tra uomo e la sua opera. Che poi tale opera possa essere in forma di pietre squadrate e cemento o essenze arboree, foglie, coste scoscese, montagne, non cambia la sostanza.Una piazza storica può essere più “naturale” di un parco di ultima generazione.

Mi insegni che il titolo è una traccia unica per svelare alcune chiavi di lettura di un tuo lavoro. Immagino che ogni lavoro in mostra abbia una sua storia particolare, ti va di raccontarci qualche aneddoto?
La questione dei titoli è la parte più intrigante di tutto il processo che porta alla realizzazione dell’opera. Il processo che porta alla scelta del titolo viaggia di pari passo con la realizzazione dell’opera stessa, molto spesso lunga e laboriosa. Alla fine si tratta di riportare in forma sintetica la narrazione presente nel quadro, che talvolta è stata già sottoposta a un’operazione di sintesi. Alla fine viene fuori una parola, una frase che poi deve anche passare al vaglio di una traduzione e mantenere lo stesso significato in inglese.Detto così sembra un processo lungo e separato, ma in realtà prende corpo gradualmente facendomi riempire lo studio di post-it attaccati nei posti più impensati. In un continuo processo di saccheggio di testi letterari, citazioni cinematografiche, testi musicali. Come quando anni fa dovendo titolare un quadro, dove un personaggio mirava con una semiautomatica a un cuore con le ali, decisi per “Ramon” e devo dire che non c’è stato molto da spiegare.

Architettura e Arte, c’è un’opera, un movimento nella storia dell’arte o nell’architettura che ti ha influenzato in modo particolare?
Io mi sono formato professionalmente in una fase in cui la ricerca in architettura non era ancora stata travolta dall’informatica, anzi in quegli anni era rivalutato il disegno in architettura e questo mi ha consentito di esercitare la pratica del disegno a mano libera, a matita e a china, che ancora oggi pratico quotidianamente.Non sono però malato di nostalgia, anzi in una società complessa come la nostra, dove “presente” e “orizzontalità” sono le parole chiave, è giusto e necessario che ci si debba avvalere di tutte le migliori tecnologie per i livelli qualitativi che sempre di più cerchiamo nelle nostre città. Indubbiamente il razionalismo italiano dei maestri del ‘900 e gli esponenti del neorazionalismo degli anni ‘80 del secolo scorso lasciano una traccia che è facilmente leggibile nelle mie opere. Se devo indicare un’architettura che mi ha fortemente colpito penso al Teatro del Mondo di Aldo Rossi. Mentre gli artisti di quel periodo che più ho amato (fermo restando la straordinaria qualità di tutti i principali esponenti) sono Mario Sironi e Alberto Savinio.Parlando di anni più recenti,David Hockney. In realtà oltre a praticarla, amo l’arte, l’espressione artistica nella sua accezione più estesa. Oltre agli aspetti meramente estetici ho sempre apprezzato negli artisti l’onestà, il mettersi totalmente in gioco, l’esporre le proprie idee e la fragilità intrinseca che determina tale condizione. Io ho degli amici che lo fanno tutti i giorni con una forza d’animo inimmaginabile.

Dove volgi lo sguardo?
All’orizzonte naturalmente, ma sempre sotto la linea.

 

Orario di apertura
dal martedì alla domenica dalle ore 17:00 alle 21:00
ingresso libero