di Maira Marzioni

Fimmine fimmine, Cantar Per Terre è uno spettacolo-vita, è il teatro nella sua essenziale natura.
Il Progetto “Fimmine fimmine canti, storie, memorie, luoghi e paesaggi delle donne dell’Arneo” nasce dalla collaborazione dell’Associazione socio-culturale “Novellando Teatri D’Arte”, diretta da Assunta Zecca, che opera da qualche anno nei territori dell’Arneo, con l’associazione culturale “Nuova Atlantide Teatro”, diretta da Caterina Pontrandolfo, che lavora prevalentemente in Campania e in Basilicata.

L’Associazione Novellando Teatri dell’Arte lavora costruendo laboratori di teatro naturale, ancorati ai luoghi, alle memorie, ai paesaggi in un’ottica di apprendimento partecipato; Nuova Atlantide Teatro si occupa di progettazione e realizzazione nel campo del teatro sociale e di comunità.
Due donne del sud e due visioni che hanno come tratto comune un modo di pensare l’arte dove il pubblico non è solo “spettatore” ma depositario, testimone, attore della comunicazione.

La Raccolta

Il viaggio parte da una raccolta fatta di incontri con donne di Veglie, Leveranno, San Pancrazio, Nardò, Copertino, testimoni di una quotidianità profondamente legata alla terra e ai suoi cicli.
Un narrare sulle donne tra donne per ricostruire una comunità del Racconto, un cerchio che riunisca le donne di oggi con quelle che in cerchio infilavano, insieme alle foglie di tabacco, anche parole, risate, confidenze.
«La ricerca sul campo è un’occasione importante per indagare il contesto e il vissuto da cui sono nati i canti di tradizione, la storia, la lingua, l’immaginario, il modo di vita comunitario che ne accompagnano l’apprendimento orale».
Una ricerca che ha un orizzonte, ma che non spinge i fatti e le parole verso quella direzione  bensì prova a tenere il filo e a costruire su quello particolari, immagini, emozioni che la memoria racconta. È una ricerca profondamente femminile nella metodologia: delicata, accogliente, atta a creare un ponte, una sintonia autentica, spinta dal desiderio di essere donne davanti ad altre donne con una storia che le ha plasmato la vita, la condizione sociale, il sentire.
«Io non sono una ricercatrice. Io sono moderatamente antropologa, al servizio di qualcosa che non ha niente a che vedere con l’antropologia. Tutte queste ricerche mi servivano per arricchire il mio repertorio di storie, di immagini, di fatti, di personaggi di cui mi sarei servita come narratrice; io sono una scrittrice, una raccontatrice», così Rina Durante descriveva il suo lavoro, Caterina Pontrandolfo le risponde, tracciando un filo immaginario e chiarendo lo stile della ricerca condotta: «É lo sguardo. Anche io non sono né l’una, né l’altra e l’altra cosa…semplicemente vado. Perché qualcosa mi dice di andare a sentire le voci, che sono in tutto quello che è intorno. E nell’invisibile. Nel tempo passato e in quello presente».
Una modalità di ricerca profonda e radicata nel sentire.
Dentro a quegli incontri le donne hanno raccontato la loro vita, cantato i loro canti, in un flusso continuo, con una memoria lucida e legata ai gesti del lavoro: il telaio, il tabacco, la pentola sul fuoco, la raccolta delle olive, il ricamo.
La memoria di queste donne è essa stessa teatro della vita: una memoria completa, viva e densa.
«Ci siamo avviate lungo i sentieri della loro storia nascosta affidata al soffio della melodia».

La Tessitura

« Il processo di elaborazione artistica alla base dell’evento si avvale di un rigoroso approccio d’arte assolutamente contemporaneo e allo stesso tempo in grado di recuperare dal “popolare” tutta la forza e la poesia stratificate nella sua memoria. Una “trasfigurazione” della memoria che commuove e apre a nuovi scenari».
L’evento di teatro-canto che conclude la prima fase del progetto, diretto da Caterina Pontrandolfo, è andato in scena il 29 settembre nell’aia di Casa Porcara. Il luogo è stato scelto per restituire al paesaggio quelle voci che da quella terra e quelle pietre sono state indissolubilmente plasmate.
Un altro elemento fondamentale della restituzione scenica è stata la coralità, una vera tessitura di caratteri diversi: la fisarmonica di Admir Skurthai con suoni densi e suoni scomposti, la polifonia ancestrale delle Sorelle Gaballo, la recitazione e il canto di donne attrici professioniste e non (Alice Rolli, Benedetta Siciliano, Assunta Zecca, Elisa Murrone, Marzioni Maira) di diverse età che hanno accettato la sfida e anche la fatica di portare in scena le voci, le memorie, le posture delle donne incontrate, di quelle evocate.
Un teatro portatore di un’idea complessa di memoria e rappresentazione, frutto di un intreccio osato tra livelli diversi di vita e racconto.
Nell’ora e mezzo di spettacolo rivive il tempo dell’anno solare e lunare: il freddo delle mani ghiacciate da scaldare con le pietre in tasca, il caldo della mietitura, l’allegria del natale e del cibo condiviso. Al tempo naturale si affianca e si intreccia il tempo emotivo, le partiture dell’anima: la fatica del lavoro, la lotta per le terre, il dolore del parto, la rabbia dell’amore non scelto.
Lo spettacolo è non a caso suddiviso in telari, sipari invisibili che compongono e scandiscono le voci, i frammenti di racconto, i canti, i gesti.
La cornice è quella di donne girovaghe che attraversano i paesi per raccogliere le storie e le voci a bordo di un traino, perché non vadano perdute, per ridargli eco e ventre.

***

Qualche giorno prima dello spettacolo siamo salite per la prima volta tutte su un traino. Ci hanno accolto Federico e Aldo, figlio e padre, abbiamo fatto un giro per le strade di campagna attorno a Mesagne. Il traino è alto, il cavallo un animale vivo. Sembrano banalità, ma il corpo a volte comprende se fa. Il mio corpo era contratto, una muscolatura dura per resistere agli strattoni, la paura delle ruote enormi che sembrano staccarsi ad ogni buca. Penso che pure mia nonna nelle campagne marchigiane ci saliva mille volte, penso alle traversate di notte con la luna raccontate dalle donne incontrate, penso che il nostro corpo non sa più niente, che le scatole metalliche hanno tolto fatica, ma anche sentire. Ogni tanto riesco a guardare intorno, da lassù la campagna è ancora più bella, il cavallo risente di tutto: l’abbaiare del cane, la macchina che passa accanto e va troppo veloce, per fare curve strette il cavallo fa retro marcia e poi imbocca la via.
«Torniamo? Quando torniamo?»
Allora capisci perché cantavano, perché era un bisogno la voce, la tua e quella delle altre per darti coraggio, per fare la strada più corta, il corpo più leggero.
Comprendi pure,  nel fare della costruzione teatrale, l’assurdità della sposa bambina, la noia del gesto dell’infilare tabacco, il peso di una cesta, lo sgomento di una nascita non desiderata eppure tenuta in grembo, attraversata, che poteva andare bene oppure no, che poi in fabbrica non potevi andare.
Pure un principio di follia isterica ti viene addosso se pensi alla non libertà di scegliere, al vestito avorio perchè eri scappata ed era una vergogna.
Le risate ti escono a un certo punto davvero all’improvviso perché per fortuna nell’andare dei giorni c’era sempre qualcuna che raccontava gli aneddoti, che sapeva gli stornelli, che ti strappava una mossa, un ardore.
Comprendi soprattutto la necessità di stare insieme, quella sorellanza necessaria, a volte obbligata perchè la vita stessa metteva il tuo destino accanto a quello delle altre, madri odiate e amate, levatrici, zie, sorelle, vicine di casa.
La comunità delle donne che c’era per bisogno, per necessità.
Capisci perché Maria si lamenta oggi a Leverano del fatto che non ci sono i posti dove le donne possono incontrarsi, dire il rosario, giocare a carte, ricamare insieme, che solo le case e al massimo gli usci d’estate sono vie d’uscita dal vivere sole, pur sapendo di avere il destino accomunato alle altre, prima, come adesso.

Il Vento

A Casa Porcara il 29 settembre 2013 c’era vento forte, c’eravamo noi là e le donne a guardarci: le spettatrici e anche le donne incontrate nella ricerca, quelle di cui abbiamo visto i soprammobili, condiviso il caffè, osservato estasiate i ricami. C’era Fernanda che si fa vestaglie con maglie e pezze vecchie, Gilda e i suoi fiori bianchi di carta, Flora e le ninna nanne, Adriana e il ricordo mitico del villaggio scomparso di Monteruga.
L’arte permette di stare dentro e anche fuori, di sollevarsi, di metterci aria, di raccontare un racconto particolare ma che ha in sè Penelope, le mondine, le donne dei villaggi sudamericani.
Credo che fare arte sia un atto poetico: partire dalle storie minime per liberarsi e librarsi.
Quello che portiamo è lo spirito, l’anima di queste donne, la cui vita non è stata affatto bella e armonica, è stata tutto.
Noi siamo nel presente e non credo ci sia bisogni di miti, soprattutto in questa terra.
Credo che il vento sia la chiave per permetterci di arrivare a tutte le donne, non a quelle di Leverano o dell’Arneo eppure principalmente a loro, ma anche a quelle che vivono in città o a quelle che hanno perso il rapporto con la terra, che non si riduce a coltivarla, ma è la consapevolezza di stare nel ritmo della natura, ogni giorno, comunque.
Possiamo mettere vento in queste storie, elevarle a storie di resistenza femminile comuni a tutte le società contadine, a tutte le donne che  per darsi forza si aggregano, diventano comunità in tutte le parti del mondo.
Tramite l’atto poetico c’è la possibilità della liberazione.
Le donne girovaghe che vanno a raccogliere storie per le strade dei paesi sono una metafora potente. Non hanno patria perchè le portano tutte, in quanto donne, in quanto artiste, curatrici di tessiture invisibili.
L’ atto poetico sta profondamente dentro ai luoghi, agli incontri, all’intimità di sè, ma va oltre, porta qualcosa che prima non c’era, per farlo c’è bisogno del volo.
Un volo poetico appunto che ritesse, dona sguardo e visione nuova, a partire dalle voci, dalla memoria viva, perché rivissuta oggi nel corpo, nelle mani, nei pensieri attraverso un teatro-vita.
“lu sule e la luna e’ calata ‘ ntera l’ amu fatta la giornata, sti fimmine non le dimenticate”.

Maira Marzioni