di Marcello Buttazzo

Nell’era sovranista soverchiante, il Festival di Sanremo è stato vinto, per un imperscrutabile gioco di nemesi storica, da un cantante di nome Mahmood, di padre egiziano. Sicuramente, non era il testo più bello, né la melodia più accattivante, ma le trite polemiche politiche susseguite sono vagamente surreali. Per intanto, s’è affermato un giovane di venti anni, nato da noi, di madre italiana, cresciuto in un quartiere milanese, perfettamente inserito nel connettivo sociale. I titolati del governo giallo-verde, come se non avessero altri più gravosi problemi, sono intervenuti per manifestare il loro profondo disappunto. Matteo Salvini ha denigrato la giuria d’onore: “Sanremo deciso da un salotto radical-chic”. E dall’alto delle sue inerenti e rinsaldate conoscenze, il ministro dell’Interno ha squalificato la “cultura” musicale di Ozpetek e compagni. È encomiabile il vicepremier del Carroccio che trova il tempo per discettare di tutto lo scibile possibile: dalla chiusura dei porti a Quota 10, dal Milan alla Nutella, dalle felpe colorate alla musica. Giggino Di Maio e il prode Di Battista, per stare sul pezzo e non perdere consensi, ovviamente si sono espressi pervicacemente contro i malevoli “giornalisti e radical- chic”. Il più virulento e volgare di tutti è stato il leghista Fabrizio Santori, ex Fratelli d’Italia, che ha incredibilmente twittato: “Ho appreso che il 69esimo festival della canzone è stato vinto da un tale Maometto”. Ma apprezzabilissimi e stimatissimi politici, calmatevi. In fondo, sono solo canzonette. 

Marcello Buttazzo